La metropoli di Los Angeles - Henning Witzel / Unsplash
Tutti ne parlano, tutti la mettono al centro ma forse il vero motivo è perché la città non esiste più. Ne è convinto, e da tempo, Rem Koolhaas: «La città non esiste più. Poiché l’idea di città è stata stravolta e ampliata come mai nel passato, ogni tipo di insistenza su una condizione primigenia – in termini visivi, normativi, costruttivi – ha come esito inevitabile, complice la nostalgia, quello dell’irrilevanza». Continuiamo a pensare a Parigi, Londra e New York come i paradigmi della città contemporanea, invece questi sono costituiti da Atlanta e Singapore, modelli della “città generica” che si sta proiettando sulle metropoli sorte sulle tracce delle città storiche. Sono temi che l’architetto e urbanista olandese ha affrontato in testi capitali come Junkspace (dove appunto si teorizza la città generica, città senza storia spinta da una autogenesi che la costringe a divorarsi e rinascere continuamente) e il monumentale S,M,L,XL. A completamento del quadro Quodlibet ha ora raccolto i Testi sulla (non) più città (pagine 240, euro 18,00), serie di scritti – in gran parte inediti in italiano – sulla natura della città contemporanea e sulla sua “sostanza urbana” radicalmente mutata negli ultimi decenni.
Cosa caratterizza la non-più-città secondo Koolhaas? La scomparsa del centro e quindi anche della periferia, la penetrazione dell’ecologia nelle aree urbane con «l’ubiquo inserimento di prati e zone piantate ad arbusti», l’ossessione del controllo e della pulizia consumato attraverso la saturazione e la norma. «Oggigiorno qualsiasi spazio vuoto è preda della frenesia di riempire e tappare».
La progettazione del vuoto urbano è uno degli spunti più interessanti del pensiero di Koolhaas, sviluppato fin dagli anni Ottanta a Berlino accanto a Oswald Mathias Unger. Nella città ancora divisa dal Muro (a cui ha dedicato una memorabile tesi di laurea, raccontata in S,M,L,XL e recuperata giustamente in questa antologia) Koolhaas elabora l’idea di città-arcipelago che conservasse le macerie della storia in quanto «elemento più significativo della storia stessa». La metropoli, attraverso una azione di ricostruzione e decostruzione, si sarebbe così configurata come un sistema di «isole “architettoniche”, sospese in un paesaggio post-architettonico, o in una cancellazione, dove ciò che una volta era considerato città viene sostituito da un nulla sovraccarico. Il tipo di coerenza che una metropoli può raggiungere non è quella di una composizione omogenea e pianificata. Al massimo può essere un sistema di frammenti, di realtà molteplici». In questo senso la capacità di «progettare il degrado», degrado che è la caratteristica del moderno, diventa essenziale: «Solo tramite un rivoluzionario procedimento di cancellazione e la creazione di “zone libere”, veri e propri Nevada concettuali in cui tutte le leggi dell’architettura vengono sospese, sarà possibile mettere fine ad alcune delle torture inerenti alla vita urbana – l’attrito tra programma e impedimento».
Se il fideismo nell’ingegneria della pianificazione e la mitografia della rigenerazione attraverso nuova architettura restano la tendenza, forti anche di una facile presa sotto il profilo mediatico, non mancano gli esempi contrari. È il caso del Premio Scarpa 2022 al Natur-Park Schöneberger Südgelände frutto del lungo periodo di abbandono di un’immensa area ferroviaria e del successivo riconoscimento del luogo come espressione di una “natura urbana berlinese”. O ancora dei temi e dei progetti portati da Richard Sennett e Pablo Sendra in Progettare il disordine. Idee per la città del XXI secolo ( Treccani, pagine 184, euro 21,00).
È una ripresa a 50 anni di distanza degli spunti di Usi del disordine di Sennett, sociologo impegnato nella dimensione urbana, riletti al presente e accompagnati da una riflessione di tipo progettuale da parte di Sendra, giovane urbanista. Per Sennett l’urbanistica è stata sottratta alla dimensione pubblica ed è diventata terreno di gioco del capitale monopolistico. Uno scenario irrigidito da una normazione rigida e ipertrofica. Ma l’assenza di flessibilità reprime la libertà d’azione delle persone, ostacola le relazioni sociali informali e inibisce la capacità di crescita della città. Il libro propone «un modello di progettazione alternativo e sotto determinato, un city-making che per mezzo di “perturbazioni” sovverte le forme rigide».
Si respira aria di controcultura anni Settanta e utopismo anarchico. Ma è un dato di fatto che la modernità – anche dal punto di vista burocratico – non contempla il “non finito” e relega l’incompiuto e l’indeterminato in un limbo senza cittadinanza. Il nostro tempo non è più in grado di pensare qualcosa che non abbia in sé la propria conclusione e forse anche per questo la città moderna (come aveva intuito Koolhaas e ribadisce Sennett) è connotata da una fragilità dovuta all’assenza di elasticità: non prevede altra funzione da quella per cui è stata determinata. Sennett indaga come ambito vitale i territori di passaggio e le narrazioni aperte offerte dalle forme incomplete. Davvero le nostre non-più-città oggi hanno bisogno di “infrastrutture per il disordine”, spazi disponibili all’imprevisto, quelli che Sennett definisce «luoghi pieni di tempo».