Reggio Calabria, alba del 18 febbraio 1971. Una colonna di cingolati dei carabinieri avanza lentamente. Su ogni veicolo blindato c’è una mitragliatrice Browning. L’ordine è quello di occupare militarmente i quartieri dei rivoltosi, fra ruspe che rimuovono le ultime barricate e gipponi che pattugliano le vie. Una decisione del governo, che, per la prima volta nell’Italia repubblicana, ricorre ai carri armati: gli ultimi resistenti, immobilizzati, saranno costretti alla resa. Una scelta drastica dettata da motivi di ordine pubblico. Davanti a una situazione incontrollabile ecco l’opzione per l’intervento repressivo finale, mentre si rinuncia a qualsiasi gesto di riconciliazione. Una prova di forza quella riservata alla città del Sud per far cessare la rivolta: che in realtà fu una manifestazione di debolezza, d’incapacità d’ascolto nei confronti dei suoi quasi duecentomila abitanti dal reddito fra i più bassi della penisola. Si concludeva così una vicenda protrattasi per ben sette mesi, con incendi, barricate e tritolo (ma non un saccheggio e persino cartelli che invocavano «comprendeteci»). Di certo la più drammatica sollevazione popolare nell’Italia del dopoguerra. Le sole cifre del bilancio finale sono lì a ricordarlo: cinque morti, oltre settecento feriti, centinaia di arrestati, un migliaio di persone denunciate all’autorità giudiziaria, decine di scioperi, blocchi stradali, portuali, ferroviari, aeroportuali… Tutto era nato nel luglio ’70 dopo l’assegnazione della sede regionale calabrese a Catanzaro: con lo smacco conseguente per Reggio, che subì questo fatto come uno scippo, un’umiliazione, vedendo spazzate vie, ancora una volta, legittime attese. In modo del tutto spontaneo la gente scese in piazza. Le cariche della polizia – le manganellate per «alleggerire la pressione» – come informavano i rapporti riservati della Questura, peggiorarono tutto. Quindi una serie infinita di scontri. Una rivolta fascista, golpista: così la raccontarono giornali e tv... Ma fu davvero così? La questione del capoluogo non era stata forse solo la scintilla che aveva acceso una miccia pronta da tempo? E l’etichetta di 'destra' applicata ai moti sin dal loro divampare corrispondeva davvero alla realtà? A queste e altre domande risponde ora il nuovo saggio di Domenico Nunnari La lunga notte della rivolta. Reggio Calabria 1970-1971: una ribellione popolare nel Sud d’Italia (Laruffa Editore, pagine 166, euro 23), un lavoro che ricostruisce ogni tappa della vicenda, concentrandosi sulla sua valenza storica, politica, mediatica, non senza aver recuperato insieme a preziosi documenti del tempo (volantini, manifesti, sequenze fotografiche, comunicati…), le testimonianze di giornalisti inviati a Reggio e opinioni autorevoli passate sotto silenzio. Quelle del presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, di Giovanni Spadolini, Peter Nichols, Nicola Adelfi, Luigi Maria Lombardi Satriani, Nicola Zitara, Fortunato Seminara. Quella del vescovo Giovanni Ferro defensor civitatis o dell’allora giovane parroco don Salvatore Nunnari. Voci ignorate da una 'congiura' ordita nei palazzi romani del potere, che faceva passare la rivolta come fascista mentre si trattava di moti popolari «da inquadrare storicamente nell’ambito delle ribellioni meridionaliste con motivazioni essenzialmente legate all’assenza colpevole di uno Stato occhiuto e non governante, distante e con atteggiamento coloniale», spiega Nunnari. Convincendoci della difficoltà di considerare soggetti eversivi quelle anziane massaie vestite di nero, che manifestavano a piazza Italia, o i ragazzotti ribelli del sottoproletariato, che facevano a pezzi la loro città. Convincendoci che quanto accadde allora nella città del sud costituiva qualcosa di assai diverso da una campanilistica manifestazione nevrastenica da irridere e che, alla base di quell’infinita guerriglia a lungo sottovalutata, c’erano domande da troppo tempo in attesa di risposte. I reggini volevano lavoro e sviluppo. Le loro attese erano dimenticate dalla classe politica, anche quella espressa sul territorio. E le risposte, arrivate a tempo scaduto, sarebbero state sbagliate. Come definire altrimenti quel Quinto Centro Siderurgico nella vicina Gioia Tauro destinato a fallire considerando la crisi di questo settore allora già annunciata? Certo ricordare la rivolta di Reggio, significa per molti – e Nunnari non lo dimentica – ricordare un urlo di disperazione autentica che però è passato alla storia camuffato dal grido «boia chi molla» lanciato da un sindacalista locale della Cisnal (vicina al Movimento Sociale Italiano di Giorgio Almirante), quel Ciccio Franco trasformato in nostrano Robin Hood da una sapiente regia, che cavalcò la sommossa perché quasi tutti gli altri la snobbavano. E se la n’drangheta non aveva interesse a mutare le cose, le forze politiche di governo e opposizione, persino i sindacati, dimostrarono di capire la situazione nella Città dello Stretto: dove la 'rabbia' dei reggini – scrive Nunnari – aveva origini lontane e gridava, nei fatti, contro la partitocrazia. Urlava la sua impotenza non contro lo Stato, ma perché c’era 'poco Stato'. E quel poco aveva solo le uniformi della polizia, dei carabinieri, delle forze dell’ordine… La sola risposta data alla «collera dei poveri».