Sono passati cinquant’anni dalla
Risposta ai cappellani militari che costò a don Lorenzo Milani due processi per apologia di reato: il primo di assoluzione con formula piena «perché il fatto non costituisce reato»; il secondo, in appello, di condanna con «reato estinto per la morte del reo». Il priore di Barbiana, infatti, morì quattro mesi prima del processo che si tenne a Roma il 28 ottobre 1967.Tutto era nato da un comunicato su “La Nazione” del 12 febbraio 1965 nel quale un gruppo toscano di «cappellani militari in congedo», riunitosi a Firenze «nell’anniversario della conciliazione tra la Chiesa e lo Stato italiano», considerava «un insulto alla Patria e ai suoi caduti la cosiddetta obiezione di coscienza che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà». Don Milani, come lui stesso raccontò, lesse il testo davanti ai suoi ragazzi della scuola di Barbiana nella sua «duplice veste di maestro e di sacerdote», mentre loro lo «guardavano sdegnati e appassionati». «Un sacerdote che ingiuria un carcerato ha sempre torto. Tanto più se ingiuria chi è in carcere per un ideale. Non avevo bisogno – scrisse il priore – di far notare queste cose ai miei ragazzi. Le avevano già intuite. E avevano anche intuito che ero ormai impegnato a dar loro una lezione di vita». D’accordo con gli allievi, don Lorenzo decise di replicare ai cappellani: «Le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto. Abbiamo dunque idee molto diverse. Posso rispettare le vostre se le giustificherete alla luce del Vangelo e della Costituzione. Ma rispettate anche voi le idee degli altri. Soprattutto se son uomini che per le loro idee pagano di persona».Per rendere pubblico il documento, don Milani, il 23 febbraio, ne fece stampare tremila copie da distribuire tra la gente di Barbiana, i preti fiorentini, alcuni politici e sindacalisti, oltre ad inviarlo ai giornali, che si guardarono bene dal pubblicarlo, ad eccezione del periodico comunista “Rinascita” che lo mise integralmente in pagina nel numero del 6 marzo 1965. Alla
Risposta ai cappellani militari reagirono in molti, anche per il tipo di testata che l’aveva accolta, ma fu l’esposto alla procura di Firenze presentato da un gruppo di ex combattenti («Profondamente e dolorosamente feriti nel loro più sacro patrimonio ideale di cittadini e di soldati») a dare il via all’azione legale contro il priore di Barbiana e il direttore di “Rinascita”, Luca Pavolini. Un accoppiamento che disturbò molto don Lorenzo: «È dunque per motivi procedurali cioè del tutto casuali ch’io trovo incriminato con me una rivista comunista. Non ci troverei da ridire nulla se si trattasse d’altri argomenti. Ma essa non merita l’onore d’essersi fatta bandiera di idee che non le si addicono come la libertà di coscienza e la non violenza».Il processo di primo grado fu fissato a Roma, in quanto sede legale di “Rinascita”, il 30 ottobre 1965. «Come avrete visto – scrisse don Milani ai suoi ragazzi –, i capi d’imputazione sono ridotti a incitamento alla diserzione e incitamento alla disubbidienza militare». In ogni caso rischiava da tre a dieci anni, ma non potendo partecipare direttamente alle sedute perché ormai malato di tumore, decise di inviare al tribunale una memoria difensiva che è passata alla storia come
Lettera ai giudici, nella quale il concetto di fondo è che quando le leggi non sono giuste bisogna battersi per cambiarle ed è dovere di ogni cittadino intervenire quando non si rispettano i principi di giustizia, di libertà e di verità. Don Milani fu anche costretto ad accettare un difensore d’ufficio che non voleva: «Non voglio un luminare del foro col bavero di pelliccia e la macchina con le tendine e l’autista... Se mi vuol difendere,
delinqua anche lui come ho
delinquito io».Al processo, come detto, non si presentò, ma fece avere tramite l’avvocato un certificato e la
Lettera. La prima seduta si risolse in cinque minuti e fu aggiornata al 14 dicembre. Tra un rinvio e l’altro il processo si concluse il 15 febbraio 1966 con la richiesta da parte del pubblico ministero di otto mesi di reclusione per don Milani e otto mesi e mezzo per Pavolini. I giudici, dopo tre ore di camera di consiglio, optarono per l’assoluzione, ma il pubblico ministero ricorse subito in appello. Il processo di secondo grado fu fissato il 28 ottobre 1967, ma don Milani morì il 26 giugno. Ad essere condannato fu il direttore di “Rinascita”. La cosa strana e per certi versi misteriosa è che le motivazioni di quella sentenza non sono mai stata pubblicate. «In appello sono andato solo, perché purtroppo don Milani era già morto – raccontò Pavolini –. E naturalmente mi hanno condannato: a cinque mesi e dieci giorni... Ma non si sono accorti che la condanna veniva a cadere sotto amnistia. E l’amnistia è stata applicata dalla Cassazione».