Altro che patto con il diavolo. L’anima di Robert Johnson ¿ uno dei più grandi bluesman della storia della musica a stelle e strisce, simbolo della vitalità di questo genere musicale - era sì tribolata, ma niente affatto in vendita. Nel suo accurato lavoro (
Robert Johnson. I got the blues. Testi commentati, Arcana), Luigi Monge smonta uno dei più persistenti miti che l’industria (e una certa critica) hanno costruito attorno a Johnson. Quello che alla base del blues ci fosse qualcosa di demoniaco, un mix ora di reminiscenze africane tribali, ora di faustiane concessioni a Satana in salsa americana. Una mitologia che ha finito in alcuni casi per snaturare il blues, velando quello che fu in realtà il suo cuore poetico: la trascrizione e rielaborazione delle inquietudini (ma anche delle risorse) di un popolo al quale, la schiavitù prima e la segregazione poi, avevano spezzato i legami identitari, familiari e culturali.Non a caso, la figura che più ossessiona l’opera del bluesman è quella del vagabondaggio, della perdita di qualsiasi ancoraggio, dell’incapacità di creare rapporti duraturi con l’universo femminile. Monge, per liquidare il mito del patto che il musicista avrebbe siglato con il diavolo, ricorre ad un’attenta ricostruzione filologia dei testi delle sue canzoni. Vediamo, seguendo il filo dell’analisi di Monge, alcuni punti controversi che sono serviti a mistificare la sua produzione.
Cross road blues, uno dei brani più celebri di Johnson. Il bluesman è dinanzi a un incrocio, un motivo simbolico molto presente nei blues. «Sono andato al crocevia/ sono caduto in ginocchio/ Ho chiesto al Signore lassù: ¿Abbi pietà, risparmia il povero Bob, ti prego¿». Non solo non c’è traccia di patti con diavolo in questi versi, ma compare addirittura un’invocazione al Signore, e un atteggiamento religioso, reso dall’atto di inginocchiarsi. Come nota Monge, il brano «è pervaso da un’aura per nulla diabolica, direi quasi religiosa». Il tema che erompe è quello «dell’invisibilità del nero, uno dei topoi più originali dell’arte afroamericana del secolo scorso» e che «anticipa di molto il capolavoro
Uomo Invisibile di Ralph Ellison (1952)».Altro brano, altro esempio:
Hellhound on my trail. Anche questa canzone è stata usata per comprovare la natura demoniaca del blues. È davvero così, come sembra suggerire l’immagine del segugio (hellhound)? Ebbene l’immagine, che richiama i cani da caccia che venivano lanciati all’inseguimento dei fuggitivi, va letta - insiste Monge - «in senso figurale» e richiama poeticamente l’esistenza «di una forza oscura che costringe a un perenne vagabondaggio». Anche qui insomma del diavolo non c’è traccia.