martedì 9 novembre 2021
60 anni fa moriva Mario Tchou, padre dell’Olivetti Elea 9003, e a Pisa nasceva il primo computer scientifico italiano. Cosa resta oggi di quell’epopea elettronica?
L’Olivetti Elea 9003 conservato presso il Museo storico della comunicazione di Roma

L’Olivetti Elea 9003 conservato presso il Museo storico della comunicazione di Roma - La White

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Novembre 1961: a distanza di pochi giorni, due anniversari segnano due momenti centrali nella storia dell’informatica italiana, e non solo. Esattamente 60 anni fa, oggi, 9 novembre, in un incidente perdeva la vita l’ingegnere italocinese Mario Tchou, guida del gruppo di giovani scienziati che lavorò alla realizzazione dell’Elea 9003, il primo “cervello elettronico” a transistor messo in commercio dalla Olivetti alla metà del secolo scorso. Quattro giorni dopo, il 13 novembre del 1961, fu inaugurato il primo computer italiano a scopo scientifico, la Cep, ovvero la Calcolatrice Elettronica Pisana, nata su iniziativa dell’Università di Pisa. Il racconto di questi due “momenti” dell’informatica italiana e di un pezzo di storia italiana è nel saggio storico Elea 9003. Storia del primo calcolatore elettronico italiano( Edizioni di Comunità, pagine 170, euro 12,50), dell’archeologo informatico Maurizio Gazzarri, che con una ricostruzione basata su fonti archivistiche e testimonianze dirette, ha raccontato – con dovizia di particolari attinti da materiali dell’Associazione Archivio Storico Olivetti di Ivrea e dell’Università di Pisa – la storia dei primi computer italiani e dei protagonisti di quella sfida avveniristica.

Come nasce questo libro?

Tre anni fa ho pubblicato il romanzo “I ragazzi che scalarono il futuro” con Edizioni Ets (vincitore del Premio Biella Letteratura e Industria 2019, sezione Giuria dei Lettori) più o meno sugli stessi argomenti. Avevo accumulato molto materiale e ho iniziato a pensare a un saggio storico, una ricostruzione più puntuale delle vicende, ma con taglio saggistico. Dell’Elea 9003 si era già parlato, ci sono articoli, riviste che hanno dedicato articoli, ma una pubblicazione che ne ricostruisse la genesi e le conclusioni non c’era. Mettere insieme le informazioni che avevo raccolto per il romanzo e quelle trovate in tanti mesi di scrittura mi ha convinto che potesse esserci una storia da raccontare. L’idea era scoprire elementi storici che potessero dare un senso al presente.

In apertura di libro c’è una frase di Olivetti che mette insieme scienza, politica e azioni di una comunità. È interessante osservare che il dibattito oggi, per esempio riguardo agli investimenti nella ricerca o alla fuga di cervelli, ruoti ancora attorno a questi temi.

In Italia c’è un’evoluzione positiva nel campo ricerca, soprattutto nell’intelligenza artificiale e nella robotica, così come nella medicina d’avanguardia, con aziende che lavorano a livello mondiale. È vero che c’è una fuga di cervelli e che non c’è adeguata importazione di cervelli dall’estero, mentre negli anni ’50 questo avveniva. Il problema credo sia che nel campo della ricerca, in Italia, viene accettato poco il fallimento.

Cosa resta oggi del 'metodo Olivetti'?

Resta un movimento di imprenditori, uomini di cultura, professionisti, che si ispirano a quel mondo. Restano i risultati nel campo dell’elettronica, che hanno lasciato una traccia indelebile. La parte più interessante della ricerca è stata parlare con i protagonisti diretti e ricevere lo sguardo umano dietro a quello scientifico e tecnologico. Olivetti è stato il primo imprenditore sostenibile a credere nel benessere oltre che nella crescita, mettendo insieme economia, cultura, urbanistica, architettura, servizi sociali, e dando risposta a tutti i temi della vita quotidiana dei lavoratori, nell’ottica di una visione globale e comunitaria. Sentiva su di sé la responsabilità sociale di impresa e dava risposte al di là della sua azienda. Credo questo dovrebbe essere un insegnamento: non guardare solo a indicatori economici ma ai riflessi su lavoratori e città.

Una delle frasi pronunciate da Tchou in un’intervista del 1959 è stata: “Le cose nuove si fanno solo con i giovani”. Oggi c’è spazio per i giovani nell’innovazione?

I giovani all’epoca furono i veri protagonisti. Il gruppo di lavoro di Tchou era di neolaureati cui vennero date fiducia, risorse e responsabilità. Oggi l’approccio nei confronti dei ricercatori è diverso.

Nel libro si parla di innovazione. Gli ultimi anni hanno visto un’accelerazione in molti campi. Cosa ci dobbiamo aspettare per il futuro?

È impressionante pensare che le storie raccontate nel libro si sono svolte solo 60 anni fa e si parlava di grandi calcolatori che consumavano moltissima energia e ora ciascuno di noi ha in tasca veri e propri calcolatori. I linguaggi di programmazione sono cambiati tanto e oggi si investe sulla collettivizzazione della programmazione. Il futuro è nell’informatica quantistica, che sarà il prossimo grimaldello evolutivo, e a mio avviso cambierà i parametri così come li conosciamo ora.

Nel libro c’è un capitolo dedicato all’ansia da progresso: c’è ancora?

Il capitolo fa riferimento a un intervento di Olivetti del ’55, con l’Italia uscita dalla guerra e l’ansia di lasciarsi alle spalle tutto quanto e vedere la luce in fondo al tunnel, ma l’ansia da progresso c’è sempre. Forse all’epoca c’era più fiducia nella scienza e nella tecnologia, mentre oggi si tende spesso a mettere in dubbio l’innovazione e c’è più scetticismo.

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