«La Prima guerra mondiale, per usare una metafora fisica, segnò un autentico salto quantico nel parossismo bellico. Ciò fu dovuto a una doppia rivoluzione, demografica e tecnico-industriale. Per la prima volta si affrontavano Stati e imperi demograficamente pieni e tecnicizzati». Lo storico francese Christian Ingrao è uno specialista di fama della violenza guerriera lungo il XX secolo; coordina da anni programmi di ricerca comparativa che indagano, con grande attenzione all’antropologia, le dinamiche di gruppo e di massa sfociate nelle catastrofi belliche dell’ultimo secolo.
Le foto delle carneficine della Grande guerra c’interrogano ancora e non sembrano affatto lontane. Quel conflitto appartiene già al nostro tempo?«Certamente. Fu una guerra inedita di formicai umani e armamenti. Questi ultimi cambiarono di natura, se si pensa in particolare all’artiglieria di grosso calibro. I primi 18 mesi di guerra di movimento furono devastanti per letalità. Molti Paesi vi accusarono i due terzi delle perdite. La guerra di trincea diventa così, paradossalmente, mezzo per risparmiare vite».
Cambiò la grammatica della violenza?«Cambiarono sia la grammatica dell’azione pubblica che quella della violenza. Dal 1915, gli Stati sono costretti a innovare nelle loro politiche pubbliche e a trovare mezzi di mobilitazione militare e civile volti ad ottenere un rendimento ottimale degli apparati produttivi nazionali, tesi ormai verso lo sforzo bellico. In termini di aggressività, viene profondamente riadattata l’offensiva classica della guerra di movimento, condotta ormai con blindati ed aerei. All’intersezione di queste due svolte, politica e militare, emergono progetti d’aggressività verso i civili assolutamente inediti e che resteranno un modello per la Seconda guerra mondiale. Furono almeno di tre tipi: bombardamenti aerei e guerra sottomarina, mobilitazione forzata dei civili nei territori occupati, genocidio (nel caso dell’Armenia del 1915)».
I codici della guerra saltarono, insomma.«Furono frequentemente e gravemente trasgrediti da tutti i belligeranti. Accanto ai bombardamenti aerei sui civili, s’introdussero pure opzioni come l’uso di gas o l’impiego di scudi umani. Anche per questo, al termine della guerra ci fu un vasto sforzo per riconoscere e imporre nuovamente il rispetto di codici bellici e di una certa legalità. Le barriere alla guerra sono così sopravvissute al conflitto».
La fine ufficiale della guerra estinse la violenza bellica in Europa?«Assieme ad altri studiosi, tendo ormai ad affrontare il problema ribaltandolo. Ovvero chiedendomi: fino a che punto le modalità d’uscita dalla guerra spiegano la sua ricomparsa un ventennio dopo? Nel 1918, tutte le parti sono perfettamente coscienti che il Trattato di Versailles equivale a una sorta di armistizio ventennale. In Francia, fra gli altri, lo affermano il maresciallo Foch, il premier Clemenceau e De Gaulle. In Germania, i soldati non passano neppure in caserma e la transizione segna il trasferimento di 5 milioni di armi individuali alla società civile; la violenza fin allora concentrata sul fronte occidentale si diffonde subdolamente in territorio tedesco. Nel 1920, quando due gruppi di studenti tedeschi politicizzati si affrontano, non si prendono più a pugni: si sparano. La cosiddetta brutalizzazione delle società studiata da George Mosse scinde l’Europa in due: Francia e Inghilterra conoscono una relativa pacificazione, in molti altri Paesi – a cominciare dalla Germania e fino alla Turchia – la guerra e la violenza scivolano più o meno subdolamente fra le maglie della società».
Si tratta di un vero collante fra le due grandi guerre?«In Europa s’instaura una sorta di tettonica fra società pacificate e altre contaminate dalla violenza bellica. Ciò spiega in buona misura l’avvento dei regimi autoritari, così come l’innesco della Seconda guerra».
La quale ucciso più civili che militari, contrariamente alla Grande guerra...«È vero, ma l’autentico salto quantico era già avvenuto nel 1914-18, quando furono accettate le prime aggressioni di Stato contro i civili. Per molti aspetti, la Seconda guerra mondiale può essere vista come una generalizzazione delle trasgressioni della Prima. Non sfuggono a questa logica neppure Hiroshima e Nagasaki, nonostante la scala certamente inaudita raggiunta in questi casi dalla violazione. Naturalmente, gli anni tra i Venti e i Quaranta possono essere studiati anche al di fuori del fenomeno guerriero. Ma ci fu innegabilmente una maturazione sociale della violenza che collega le due guerre in un’unica sequenza storica».
Quanto contò in questa violenza l’ingrediente etnico?«L’avvento del razzismo precede la Prima guerra mondiale, ma con il conflitto la questione dei pregiudizi nazionali, il vilipendio dell’immagine altrui, l’etnicizzazione, l’antisemitismo conoscono un balzo. Gli Stati cominciano a presentare le differenze nazionali con argomenti che si vogliono scientifici. In questo senso, il nazismo svilupperà e concentrerà all’estremo delle pratiche già osservabili in precedenza. Durante la Prima guerra mondiale, i tedeschi compiono già indagini razziali nei campi di prigionia per tentare di approdare a teorizzazioni più precise. Il nazismo ne farà il centro di una visione del mondo e di un progetto politico».
La stessa sequenza storica è pure quella del mondo nuovo delle superpotenze?«Il predominio americano nasce con la Prima guerra mondiale e non con la Seconda, come ancora si tende a dire. Nel 1914 gli Stati Uniti sono un Paese debitore. Ma all’uscita dalla guerra, tutte le altre potenze industriali diventano debitrici del banchiere planetario americano, nuova autentica superpotenza».