giovedì 17 ottobre 2024
Nel libro “Cabbalisti cristiani” di Saverio Campanini il percorso del massimo studioso contemporaneo della tradizione mistica ebraica nell’intreccio con il cristianesimo
Gershom Scholem nel 1935

Gershom Scholem nel 1935 - WikiCommons

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Gershom Scholem (Berlino 1897 - Gerusalemme 1982) è stato il massimo studioso della Qabbalah e della sua tradizione mistica nello scorso secolo. Fin da ragazzo apparve posseduto da un’implacabile passione inquisitiva per il mondo ebraico. Tutto lo attraeva: le sue radici, la sua storia e, particolarmente, la sua religione affidata alla Torah, la figlia di Dio artefice e misuratrice fissata per sempre nei cieli, che precede la creazione e verga i cinque primi testi dell’Antico Testamento.

I cabbalisti si erano consumati inseguendo il fuoco originario di Dio nelle lettere che la Torah aveva scritto con fuoco nero su fuoco bianco, e che Dio combina nelle sue infinite forme segrete e cangianti. Mentre attraversava il Novecento in fuga da Hitler, emigrando in Palestina già nel 1923, con una passione sionista pacifica, in difficile equilibrio con gli eventi, Scholem divenne il primo studioso sistematico della Qabbalah, di cui indagò le origini medievali in Provenza e Catalogna tra il XII e il XIII secolo, le prosecuzioni in Europa e in Oriente, il rinnovamento settecentesco dei chassidìm di Polonia e Ucraina trasmesso oggi fino in America e Australia. Compose affreschi storici e teologici memorabili, capolavori storiografici come quello dedicato alla figura messianica ed eretica di Shabbetay Zevi, convertito all’islam predicando la santità dell’apostasia; o l’ultimo sul camaleontico Moses Dobrushka: la sua misteriosa parentela con Jacob Frank, sabbatiano estremo convertito al cattolicesimo per portarvi la dissoluzione di ogni religione, si intrecciava con le trasformazioni dell’ebraismo moderno: la loro mescolanza interessava personalmente Scholem, che studiava l’insoddisfazione per le tradizioni ebraiche ortodosse maturata nel gran fuoco delle revisioni religiose e filosofiche intorno a miti di rigenerazione spirituale e messianica: l’idea di progresso illimitato e le utopie estreme, la «potenza rigeneratrice della distruzione» e la redenzione. Di Scholem, tradotto in Italia fin dal 1965 ( Le grandi correnti della mistica ebraica) e 1973 ( Le origini della Kabbala), Adelphi ha pubblicato ben nove titoli, ma tra essi Cabbalisti cristiani, curato in modo eccellente da Saverio Campanini (Adelphi, pp. 177, € 8,99), affronta una ricerca diversa: trasporta lo sguardo al di là degli ambiti degli studiosi che scrivono in ebraico, proponendo tre saggi esemplari in rapporto all’Europa cristiana, alle figure che fecero nascere un nuovo mondo di tessiture teologiche, filosofiche, letterarie, artistiche tuttora vive e affascinanti. Nel saggio che lo accompagna Campanini dimostra come l’impulso di Scholem verso la scienza segreta della Qabbalah fosse nato in lui dalla lettura della Philosophie des Geschichte del cristiano Franz Joseph Molitor, massone romantico influenzato dall’ebreo Hirschfeld che era stato in contatto con Dobrushka. Per tutta la vita Scholem aveva cercato la purezza della tradizione, rivendicando la Qabbalah, scrive Campanini, come «fattore decisivo e motore segreto della sopravvivenza degli ebrei di fronte a durissime persecuzioni esterne e spinte interne alla disgregazione». Ma solo in tarda età faceva i conti con quell’ironica conversione alla ricezione ebraica, mediata dal massone cristiano. I tre saggi discutono nel contesto delle origini le complesse realtà dei contatti tra cabbalisti e cristiani (spesso ebrei conver-titi), ma esplorano soprattutto la nascita della Qabbalah cristiana nel primo Rinascimento italiano, quando la Qabbalah si diffuse a opera di Pico della Mirandola, che si era fatto tradurre una preziosa raccolta di manoscritti ebraici del XIII secolo dal dotto convertito siciliano Raimondo Moncada, alias Flavio Mitridate. Nel 1486, a ventitré anni, Pico pubblicò a Roma le Novecento tesi profondamente influenzate dalla mistica ebraica, mescolandola al platonismo e all’ermetismo, a Ficino e a Picatrix, nella scia della philosophia perennis, pensando a «una rivelazione originaria [...] un fondamento comune a tutti i miti e i simboli delle religioni, che era possibile svelare ricorrendo all’interpretazione simbolica». Lo spirito della metamorfosi, l’analogia dei simili, fa dell’uomo un Proteo, che in sé contiene il tutto, dal verme all’angelo, come significava l’antichissimo en to pan: Pico assorbe l’Enoch dei mistici della Merkavah rapito al trono di Dio in giovane angelo Metatron, l’«angelo della divinità», che rappresenta il divino che è in noi. Si spinge in una teurgia magica volta alla convergenza cristocentrica delle religioni che oltrepassa il De pace fidei di Cusano, affermando che non c’è scienza «che ci renda certa la divinità di Cristo più della magia e della qabbalah »: Cristo crocifisso al mondo come Anima Mundi. La Qabbalah era assunta dunque dal cristianesimo. E poi ci fu Johannes Reuchlin che, a trentacinque anni, nel 1490 incontrò a Firenze Pico, ne restò impressionato e pubblicò nel 1494 De verbo mirifico, la prima opera intera sulla Qabbalah, sul miracoloso nome di Dio, e infine De arte cabalistica, che dedicò nel 1517 a papa Leone X. Sia Pico che Reuchlin individuarono nell’autore dello Zohar e nel cabbalista spagnolo del XIII secolo Abraham Abulafia i più autorevoli precursori. Scholem, con una certa dose d’ironica civetteria, volle indicare in sé stesso la reincarnazione di Reuchlin, che aveva fatto rinascere la scienza dell’ebraismo in Europa. La Qabbalah trionfò nel Cinquecento come risposta ai grandi problemi del popolo ebraico, alimentando il messianesimo: «Illuminava il senso dell’esilio e della redenzione e spiegava l’unicità della situazione storica di Israele all’interno del contesto più vasto, cosmico, della creazione stessa».

Scholem esamina le diramazioni, i tradimenti, le interpretazioni ateistiche motivate su Spinoza, filosofiche da Leibniz ai platonici di Cambridge, a Schelling ed Hegel, teosofiche nel senso di Jakob Böhme fino a Blake, quelle magiche alla Johann Georg con Welling nell’Opus mago-Cabalisticum presente a Goethe e di MacGregor Liddel Mathers amico di Yeats (che non nomina). Era una teologia mistica dolorosa. Nella Qabbalah di Isaak Luria Dio non crea gioiosamente, come nella Genesi, ma ritirandosi in sé, nelle dieci emanazioni delle sefirot, dall’en sof di luce senza confini alla Shekinah, il volto femminile di Dio, che percorre in esilio le vie del mondo. Chi la segue compiendo la Torah, nelle umili occupazioni di ogni giorno, libera le scintille divine lasciate nel vuoto di Dio, ricompone le lettere smembrate del suo nome. Era quello che aveva tentato di fare Scholem, fino alla fine.

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