martedì 28 maggio 2024
L'archivista Flavio Belluomini: «Nei documenti della congregazione, oggi Dicastero per l'Evangelizzazione, c’è la storia globale dell’incontro tra la Chiesa e l’altro e del desiderio della conoscenza»
“Breve idea del modo del modo ed ordine onde con cerimonia sacro-pagana si celebrano in Concincina i funerali e si portano i cadaveri a seppellir nelcimitero da’ cristiani”

“Breve idea del modo del modo ed ordine onde con cerimonia sacro-pagana si celebrano in Concincina i funerali e si portano i cadaveri a seppellir nelcimitero da’ cristiani” - Archivio di Propaganda Fide

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Più di quattrocento anni di storia, raccolti in tre chilometri lineari di documenti. I numeri sono impressionanti ma non dicono tutto di quello che è l’Archivio storico di Propaganda Fide, sito nella sede del Gianicolo dai primi anni del 2000 (mentre quello corrente è collocato oggi come un tempo nella sede di piazza di Spagna). Ci sono storie, domande, racconti di luoghi un tempo percepiti come periferici e oggi diventatati nuovi centri. Un grande contenitore di racconti, ma anche della pratica del discernimento che si fa storia. Flavio Belluomini, archivista dell’Archivio Storico di Propaganda Fide del Dicastero per l’Evangelizzazione, sintetizza così: «L’archivio rivela il desiderio del Papa nel corso dei secoli di annunciare il Vangelo nel mondo, un servizio universale che si è andato declinando nel tempo e nello spazio in vari modi».

Perché è importante l’archivio di Propaganda Fide?

«Perché è il giacimento su cui costruire il dialogo contemporaneo, una necessità su cui insiste molto papa Francesco, in particolare in questo contesto di guerre. La Congregatio de Propaganda Fide, istituita da Gregorio XV nel 1622, è divenuta nel 1967 Congregazione per l’Evangelizzazione dei popoli e quindi nel 2022 Dicastero per l'Evangelizzazione. I cambi di nome sono il portato di una lunga evoluzione nei secoli che si è accompagnata a cambi di prospettiva, a sua volta frutto degli incontri. Un percorso il cui fil rouge è l’attenzione alle diverse realtà».

Eppure la missione di Propaganda Fide spesso è raccontata come un problema di identità.

«La congregazione nasce con l'idea di portare il cattolicesimo, questo deve essere chiaro: il contesto storico è quello controriformistico. L’attività di Propaganda Fide avrebbe dovuto rivolgersi verso quelle zone del mondo dove la fede cattolica era assente, il credo dei cattolici era minacciato e mancava una gerarchia ecclesiastica stabile. Era su questi “territori missionari”, in primis quelli europei, che il nuovo dicastero veniva chiamato a dirigere le iniziative già in essere e a proporne di nuove. Ma il principio era andare e portare un seme: e perché attecchisse era necessario trovare un terreno fertile e che quindi andava conosciuto e preparato. Questo archivio, attraverso le innumerevoli relazioni che contiene, racconta tutti gli sforzi fatti dalla Chiesa per conoscere l’altro».

Quali erano i principali strumenti di questo processo?

«Innanzitutto, il problema delle lingue, la cui conoscenza si accompagnava a quella delle culture locali. La traduzione dei testi sacri, delle preghiere e dei concetti della fede cattolica venne considerato un aspetto determinate. Già il 3 giugno 1622 fu approvata la decisione di tradurre in arabo la Bibbia. Propaganda si dotò presto di una tipografia poliglotta che stampava in tutti gli alfabeti e in tutte lingue con cui si rapportava. Nella missione in Tibet, condotta nel XVIII secolo dai cappuccini, padre Domenico da Fano si adoperò per la compilazione di un primo dizionario della lingua tibetana mentre Cassiano da Macerata redasse l’Alphabetum Tangutanum sive Tibetanum in cui, dopo la descrizione dell’ortografia e della pronuncia della lingua tibetana, poneva la traduzione del Segno della Croce, del Pater e dell’Ave Maria. Tutta questa attività editoriale avvenne in un costante contatto epistolare con la Congregazione che approvava o meno quanto proposto».

In un certo senso, questo è il primo archivio globale.

«Sì, l’aspetto caratterizzante e continuativo di questo dicastero è il suo avere sempre avuto a che fare con il mondo. Le serie archivistiche riguardano tutti i continenti e tutte le latitudini, a differenza di altri importanti archivi nazionali che, per quanto vasti, si limitano ai territori afferenti ai rispettivi imperi. Qui il principio dei limiti territoriali non sussiste, perché la Chiesa cattolica è per natura senza confini. O meglio, se arrivi a un confine, va subito sorpassato. E questo è un altro aspetto che continua oggi, sebbene in termini diversi. Cristo ci ha detto di portare la sua parola in tutto il mondo, ma un tempo questo compito era inteso in una visione di esclusività, con la Chiesa cattolica come unica garante della salvezza: chi non conosce Cristo non potrà salvarsi se noi non gli portiamo il Vangelo. Oggi non ragioniamo più in questi termini ma nel senso del Vangelo come annuncio di libertà, nella coscienza che Cristo è il Salvatore del mondo. La continuità è data dall’attenzione sulla dimensione teologica e all’altro».

Questo processo progressivo di incontro e conoscenza riusciva anche a rimodulare il modo con cui la Chiesa di Roma si pensava in termini teologici e spirituali?

«È un tema complesso, che merita approfondimenti. Ci sono studi a livello canonistico: nasce un diritto missionario che poi ha un riverbero anche sul diritto canonico comune. Per quel che riguarda l'aspetto teologico, io credo che quanto arrivava e veniva conservato abbia contribuito progressivamente all'apertura della Chiesa ai nuovi orizzonti della missione. Da questo punto di vista le relazioni conservate nell’archivio sono molto ricche di informazioni, perché molte riguardano l’applicazione, la traduzione o l’adattamento della norma romana nei territori, senza una soluzione prefissata».

L’archivio racconta dunque anche le radici dinamiche ecclesiali contemporanee?

«Roma ha il dovere di conservare la norma: ma questa non si trasmette se non si conoscono la cultura, la lingua, il territorio. Allo stesso tempo, questa conoscenza fa ripensare la possibilità o meno di applicare la norma. Affermare che la Chiesa prima del Concilio Vaticano II si ponesse davanti all'alterità con quell'apertura che intende papa Francesco oggi, sarebbe un anacronismo. Però, di fatto, era quel che succedeva: l’impatto tra l'ideale e il reale generava un dibattito vero, la cui soluzione era cercata nell’ottica del bene dell’uomo».

Erano i semi di quello che oggi chiameremmo dialogo?

«Certamente era vita concreta. Ad esempio, nel Seicento i missionari nelle zone montuose della Georgia facevano anche i medici. E scrivono a Roma di mandare aiuti economici per evitare di dovere chiedere di essere pagati per le cure, altrimenti avrebbero cessato di essere visti come missionari: in tal caso il messaggio evangelico non sarebbe passato. È un dato che ritorna, ad esempio riguardo la proibizione di praticare il commercio, per essere soggetti credibili. In questo senso vanno lette anche le numerose prese di posizione ufficiali nei secoli contro lo sfruttamento delle popolazioni locali e delle persone. Pronunciamenti che si intensificano con il colonialismo dell’età dei nazionalismi».

L'archivio contiene anche materiale di carattere iconografico?

«Sì, anche se in misura minore rispetto alla documentazione scritta. Ci sono ad esempio carte geografiche. Poteva poi capitare che i missionari inviassero immagini, ad esempio di un funerale “gentile”, per mostrare il rito. ma soprattutto c’è il fondo fotografico dell'Agenzia Fides. Si tratta di negativi, per i quali è urgente un intervento di messa in sicurezza per garantirne la conservazione».

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