Il mio incontro scolastico con I promessi sposi è stato piuttosto frammentario e superficiale, avvolto per di più da una nube di irritazione e di noia. Erano i primi anni Settanta e la mia insegnante di italiano era una persona fieramente innamorata della sua laicità. Viveva infatti immersa nello spirito della Rivoluzione francese e tutto quello che non veniva illuminato da quella gelida luce dissacrante lo considerava un cascame di anticaglie cavernicole, capaci di riportare l’uomo all’adorazione dei totem e all’uso della clava. Con questo spirito, quindi, affrontò con noi giovani aspiranti maestre il mondo della Provvidenza manzoniana e dei verecondi pudori della giovane Lucia. Gioiva dell’irrisione con cui veniva presentato Don Abbondio, del suo essere un vile servitore, poco incline a seguire la sua fede ma pronto a prostrarsi davanti ai più forti pur di poter trascorrere una vita tranquilla e senza problemi. Del resto, a noi ragazze di quell’epoca, immerse come eravamo nelle correnti della liberazione della donna, il personaggio di Lucia non poteva provocare alcun tipo di identificazione e di simpatia. I suoi sospiri, i suoi sguardi bassi, il suo essere naturalmente una vittima sacrificale ce la rendevano assolutamente invisa. Chi mai, infatti, poteva identificarsi in un simile tipo di ragazza, capace solo di volgere i suoi occhi a terra o al cielo, implorando pietà al potente di turno? Per ammirare un’eroina, e per sentirla vicina, dovevamo riuscire a riconoscere in lei qualcosa di noi stesse e questo, con Lucia, davvero non era possibile. Con Renzo andava un po’ meglio, era in fondo uno sventatone di buon cuore, testardamente deciso a impalmare la sua bella e ad affrontare per lei ogni tipo di pericoli e peripezie. Dato che la nostra lettura de I promessi sposi, non fu lineare, ma soltanto attraverso dei brani scelti, ricordavo poco degli altri personaggi. L’Innominato, Don Rodrigo, Fra’ Cristoforo, la Monaca di Monza restavano tutti sospesi in un limbo di prepotenze gratuite e di buoni sentimenti. E poi, che cosa poteva suscitare in noi adolescenti – cresciuti per lo più già nel vuoto del nichilismo – l’idea della divina Provvidenza, se non ilari risate di scherno? Probabilmente, con una professoressa che avesse amato e compreso profondamente l’opera di Manzoni, avremmo potuto accedere ad un altro livello di lettura. Purtroppo, nella mia memoria, I promessi sposi trascinano con sé un triste codazzo di autori sacrificati sull’altare dell’obbligo scolastico: Virgilio, Omero, Foscolo e, in cima a tutti, il sommo Leopardi, presentato come un’infelice storpio di cattivo carattere. Proprio grazie a queste memorie, e grazie al fatto di essere io stessa un autore, ho maturato con gli anni la convinzione che far leggere i classici della letteratura a scuola sia un vero e proprio incitamento ad abbandonare quanto prima il piacere della lettura.
Comunque, non so se per divina provvidenza, per destino o per caso, ad un certo punto della vita mi è capitato nuovamente tra le mani il famigerato testo. Era un’edizione degli anni Venti, grande, con fogli di carta velina a proteggere le illustrazioni. È stata l’unica eredità lasciatami dalla mia bisnonna, morta a cent’anni, insieme a un piatto per la frutta. Si era a metà degli anni Ottanta e quel tomo grigio dall’aria consunta e poco invitante non suscitò certo i miei entusiasmi di ereditiera. Lo lasciai a languire nella mia libreria per un tempo piuttosto lungo: dorso elegante e nobile, tra altri più ordinari. Poi però un giorno, incuriosita dalle illustrazioni, lo ripresi in mano e cominciai a leggerlo. Quale fu il senso che mi prese, fin dalle prime pagine? Prima di tutto un senso di stupore. La lingua era meravigliosa, ed essendo io una persona che lavorava con la lingua, non potevo che trarne un infinito piacere. Ma poi, sorpresa! una cosa che non mi sarei mai aspettata: l’ironia. Sì, lì dentro c’erano pagine di intenso godimento ironico. Da Don Abbondio ad Azzeccarbugli, fino a Donna Prassede, tutti i personaggi rivelavano lo straordinario talento di un autore profondo conoscitore dell’animo umano, capace di illuminare le azioni e i pensieri con il garbo di chi sa porre ogni cosa sotto la luce della misericordia.Nel breve e ostile assaggio scolastico, non avevo avuto modo di capire che I promessi sposi fossero un’opera così completa e corposa. Corposa per il gran numero di pagine, e completa per la ricchezza e la competenza dei temi affrontati. Può essere considerato infatti un romanzo di cappa e spada, ma è anche, e soprattutto, un romanzo storico, oltre ad essere un libro sull’anima e sul carattere degli italiani. [...]
I promessi sposi è uno dei grandi romanzi classici che ci ha donato l’Ottocento. Ed è davvero un vero peccato che passi – nell’insegnamento ordinario e nell’immaginario collettivo – come un libro di apologetica cattolica. Naturalmente si parla del male e di ciò che porta con sé, oltre all’orrore, vale a dire la possibilità di una redenzione. Ma esiste una letteratura che sia davvero degna di questo nome che non contenga, nella sua parte più profonda, questo nucleo incandescente? Esiste, certo, la letteratura di svago. Quella letteratura che ormai, piuttosto ossessivamente domina i banconi delle catene librarie e gli spettacoli televisivi. Ma questa letteratura – che non è affatto spregevole per fuggire i momenti di noia – passa in noi senza lasciare altra traccia se non il ricordo di un pomeriggio di oblio. «Esistono in tutti i tempi – scriveva Schopenauer – due letterature che procedono l’una accanto all’altra quasi estranee tra loro, una letteratura vera e propria e l’altra soltanto apparente. La prima crescendo diventa letteratura permanente. La producono coloro che vivono per la scienza e per la poesia; essa procede nel suo cammino seria e quieta, ma in modo estremamente lento. In Europa essa produce una dozzina scarsa di opere in un secolo, le quali però rimangono. L’altra letteratura, esercitata da persone che vivono della scienza e della poesia, va avanti al galoppo, con gran chiasso degli interessati, e annualmente mette sul mercato molte migliaia di opere. Dopo pochi anni, però, viene da chiedersi: dove sono queste opere? Dove la loro gloria così prematura e rumorosa? Si può perciò chiamare quest’ultima letteratura che passa, l’altra letteratura che resta». La letteratura che resta, quindi, è sempre un discorso intorno alla contraddittorietà e alla complessità dell’animo umano, un cercare a tentoni le strade misteriose che conducono l’essere dalla condizione di mancanza a quella di pienezza. Ed è proprio per questo che resta, perché ognuno di noi sa che è quella la strada da percorrere per essere davvero degni del nome di esseri umani.
Se devo essere sincera fino in fondo, quello che sapevo essere il momento culmine della narrazione e che quindi attendevo con ansia – vale a dire la conversione dell’Innominato – rileggendolo, ha lasciato invece dentro di me un senso di ansia insoddisfatta. Per la mia anima – un’anima in cui si combattono grovigli genetici del mondo giudaico e di quello slavo, un’anima abituata a scavare con il bisturi, ad andare in fondo ad ogni cosa con una quasi inesausta ferocia – quel repentino mutamento scatenato dalla timida verecondia di Lucia mi è parso davvero poco credibile, se non come risoluzione forzata di un teorema che Manzoni voleva dimostrare, soprattutto se riferito a un personaggio di cui nulla conosco, se non il suo apparire esterno. Mi sono ricordata così di quello che mi ripeteva spesso Alberto Moravia, durante le nostre peregrinazioni romane. Gli italiani, mi diceva, non conoscono la profondità dell’anima, perché la bellezza del paesaggio in qualche modo li stordisce e li trasforma comunque in pittori, anche se hanno la penna in mano.