«L'islam è la soluzione». «Al-islam huwa al-hall». Come un mantra per i Fratelli Musulmani d’Egitto che dal 1928, anno della loro fondazione a Ismailiyya, è stato ripetuto quasi compulsivamente dal Nilo a Sinai: mormorato negli anni della repressione sotto Nasser, sussurrato in quelli di ambiguo fiancheggiamento a Sadat come nell’ultimo trentennio sotto Mubarak, l’ultimo faraone. Parola d’ordine, e per questo semplificazione brutale, della lunga dissidenza della rinascita islamica contro i regimi autocratici di tutto il Medio Oriente. Tuttavia la folla oceanica di piazza Tahrir (Libertà), icona di una rivolta popolare repentina quanto imprevista, resta ancora tutta da decifrare. Chi erano quelle centinaia di migliaia che l’11 febbraio del 2011 festeggiarono fra canti e balli la caduta di Mubarak? Chi erano, invece, quelle centinaia di migliaia che alla fine di giugno del 2013 ottennero, spalleggiati dall’esercito, la deposizione di Mohamed Morsi, il primo presidente della fratellanza? Sedici mesi che hanno sconvolto l’Egitto e fatto carta straccia delle più recenti "dottrine del mondo arabo".La prima piazza Tahrir, quella contro Mubarak, venne frettolosamente salutata come l’imprevista vittoria di una società post-islamica al grido di slogan secolari, «pane, libertà, giustizia», agitati dai social network. Quella piazza sancì la crisi del modello che «aveva consentito ai regimi in carica» alleati e sorretti dall’Occidente, «di sopravvivere oltre la fine della guerra fredda e degli anni dell’emergenza della lotta al terrorismo transnazionale», afferma Giovanni Sale in
Islam contro islam (Jaca Book, pp. 166, euro 14). Rivolta prettamente politica dunque, e non solo "del pane", nata da un moto laico e spontaneo. Nel giro di pochi mesi, tuttavia, l’islam politico, inizialmente defilato ma ben radicato nel profondo Egitto, ritornò prepotentemente sulla scena: i Fratelli Musulmani vinsero le prime elezioni libere, come in Tunisia il partito islamico di al-Nahda guidò il dopo Ben Alì. Ma nel giro di pochi mesi, cogliendo ancora di sorpresa le opinioni pubbliche occidentali, l’Egitto che aveva scacciato l’ultimo faraone, liquidava pure Mohamed Morsi: 22 milioni di firme e una piazza Tahrir nuovamente straripante determinarono il 3 luglio di quest’anno un rocambolesco avvicendamento al vertice dello Stato, con l’esercito, di nuovo, nel ruolo di garante. Per alcuni un intervento di salvaguardia contro il tentativo di instaurare uno stato basato sulla sharia; un vero colpo di Stato consumato nel silenzio di Usa e Ue, per altri. Di certo un guado pericolosissimo, che l’Egitto, con il resto del mondo arabo, non ha ancora attraversato. Ma è corretto decretare, con il fallimento di Morsi anche quello dell’islam politico? Più in generale: una religione dal valore anche politico come l’islam può rapportarsi alla democrazia nata in Occidente? Nell’agile miscellanea
L’autunno delle primavere arabe a cura di Roberto Tottoli (La scuola, pp. 90, euro 8,50) Massimo Campanini, molto esperto della fratellanza, ribadisce che nel pensiero politico islamico contemporaneo esistono «tentativi di elaborazione dottrinale che potrebbero individuare un comune terreno con la democrazia». Il dibattito sui concetti di
shura (consultazione) e di
dawla madaniyya (stato civile) potrebbe giungere alla legittimazione dal basso del potere sovrano. Concetti, osserva Campanini, ancora «incerti e imprecisi» mentre i Fratelli Musulmani nel biennio 2012-’13 si sono trasformati da movimento a partito politico. La sfida e l’opportunità è di giungere a un partito islamico moderno superando l’automatismo dogmatico per cui «La soluzione è l’islam» e accettando il dibattito con le forze liberali e laiche. Se questo è il tormento dell’Egitto, stato simbolo del mondo arabo, nell’Africa subsahariana (in Mali e Nigeria in particolare) il vuoto di potere e le ripercussioni della guerra di Libia hanno dato nuova linfa a uno jihadismo fondamentalista di recente costituzione in quelle terre tribali e desertiche. Un’emergenza che rimanda all’altro buco nero mediorientale: la tragedia della Siria già destabilizzante per Iraq e Libano. Una situazione che sta trasformando la tradizionale condizione di
dhimmitudine (sottomissione) della minoranza cristiana in Medio Oriente in impossibilità di sopravvivenza. Nuovi equilibri e sistemi politici da sperimentare, ma che saranno tanto più nefasti se alla fine - dopo tanta "brezza di primavera" e tanto dolore innocente di popoli - si constaterà il fallimento di qualsiasi esperimento democratico. Per questo Giovanni Sale addita come fondamentali per l’evoluzione di tutta la sponda sud del Mediterraneo le elezioni politiche del marzo 2014 annunciate pochi giorni fa dal governo ad interim del Cairo. Lo spettro, ammonisce Sale, è una nuova guerra civile come in Algeria nel 1991-92: in tal caso un nuovo inverno arabo avrà soppiantato il dilemma se il presente sia una primavera non sbocciata o un lungo autunno che non finisce mai.