sabato 30 novembre 2013
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​Ricchi e poveri? Destra e sinistra? Sud e Nord? Nel mondo globalizzato del terzo millennio sta emergendo una nuova polarizzazione che riassume e in qualche modo trascende quelle tradizionali. La polarizzazione tra coloro che «si prendono cura» e quelli che vivono nell’indifferenza. Cultura dell’incontro e della custodia da una parte. Individualismo dall’altra. Lo sta sottolineando in maniera particolare Papa Francesco in questi primi mesi di pontificato. E ieri, sulla scia del suo magistero, la prospettiva è emersa nettamente – e con un approccio interdisciplinare – anche nel corso del convegno «Custodire l’umanità, verso le periferie esistenziali», organizzato dalla Conferenza episcopale umbra con il supporto del Servizio nazionale Cei per il progetto culturale e delle due Università di Perugia. Un verbo, quel «custodire» contenuto nel titolo del simposio, coniugato in diversi modi. Il punto di vista economico, ad esempio. Anche nel regno del profitto per eccellenza (che qualcuno da sempre interpreta alla luce dell’homo homini lupus) la recente crisi ha incrinato alcune certezze. Siamo proprio sicuri, si sono chiesti un sociologo come Mauro Magatti e un economista come Luigino Bruni, che i conti vadano sempre fatti solo in termini di guadagno e di Pil? Secondo il primo, anzi, proprio la crisi dimostra che «la mera espansione finanziaria non può costituire la via principale dell’accumulazione capitalistica». In futuro «un contributo ugualmente importante dovrà venire da nuove forme di accumulazione sociale e culturale come la cura delle persone e dei luoghi che sono il patrimonio di intelligenza e creatività» da cui ripartire. La «ripresa economica – ha aggiunto Bruni – si deve misurare in termini di creazione di posti di lavoro. Se pure riuscissimo a riportare la variazione del Pil in positivo, ma ciò fosse dovuto solo all’aumento del gioco d’azzardo, quella non sarebbe vera crescita». Notazioni che rimandano all’uso del denaro, oggetto dell’intervento del filosofo Adriano Fabris, per il quale «occorre elaborare una critica della mentalità comune e ripensare lo stesso denaro nella sua dimensione relazionale». Oggi, infatti, con il processo di «autoaffermazione delle nuove tecnologie, il denaro è diventato virtuale», tende a riprodurre se stesso e ad avviare derive nichiliste legate alla categoria del consumo. «I soldi in sostanza – ha detto Fabris, nella sessione presieduta da Roberto Fontolan – misurano il valore di ciò che è consumabile, cioè di quello che viene ad essere annullato». E il peggio è che il criterio si applica non solo alle cose ma anche alle persone (mercato degli organi, nuove schiavitù, uteri in affitto ed altre amenità del genere). Non è difficile scorgere il filo rosso che lega questi tre interventi di ambito economico a quelli della prospettiva che potremmo definire umanistica. Il comune denominatore è infatti l’antropologia di riferimento. In quella di una certa globalizzazione, ha fatto notare lo storico Andrea Riccardi, «l’uomo, la donna, i popoli vivono la condizione dello spaesamento». Ne sono simbolo «le città senza centro» e la «crescita del senso individuale della vita», che genera conflittualità. Nell’antropologia cristiana, invece, accade tutto l’opposto: «Fraternità, prossimità ai poveri, comunione tra le persone sono valori irrinunciabili». E la Chiesa «propone all’uomo planetario la stabilità fatta di famiglia, città, comunità». In particolare «l’insistenza sulla famiglia non è frutto di arcaismo sociale, ma proprio in funzione del valore della stabilità degli uomini nei loro rapporti fondamentali». Una prospettiva che può affascinare anche i non credenti. Il filosofo Salvatore Natoli non ha nascosto che la dimensione relazionale dell’esistenza, proposta dal cristianesimo, può essere una via d’uscita dalla crisi. Al punto che «il Cristo-carità rappresenta non dico l’ultima – ha sostenuto – ma forse la più recente inculturazione del cristianesimo». Questo però pone, a giudizio del relatore, un problema: «La dimensione della caritas ha finito per avere il sopravvento sulla trascendenza pure all’interno dello stesso mondo cattolico: un tempo Dio era la questione centrale della cultura. Poi Dio è svanito e non ha costituito più un problema, anche per molti cristiani». Domanda neanche tanto sottintesa: è un bene o un male? La risposta alla questione posta da Natoli è arrivata nella medesima sessione, moderata dal filosofo Antonio Pieretti, dall’arcivescovo di Chieti-Vasto Bruno Forte: «L’essenza del cristianesimo è "mai senza Dio, mai senza l’altro". Possiamo amare proprio perché siamo amati dal Signore, possiamo custodire perché siamo custoditi da lui, possiamo essere fedeli perché possiamo fidarci della fedeltà di Dio». Una sintesi che tiene insieme immanenza e trascendenza, umanità e divinità, nell’orizzonte di quella che Forte ha definito «la singolarità dell’umanesimo rivelato in Cristo». In pratica si ritorna alla polarizzazione di partenza: all’autonomia assoluta, cioè all’individualismo che si risolve «in solitudine e frustrazione», i cristiani sono chiamati ad opporre «un’eteronomia fondata sul rapporto con l’altro». La custodia di cui parla Papa Francesco.
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