Vittorio Possenti - Archivio Avvenire
Prosegue il dibattito che da diverse settimane anima le pagine di “Avvenire” attorno alle questioni tra cattolicesimo e cultura. In precedenza sono intervenuti Sequeri, Righetto, Gabriel, Forte, Petrosino, Ossola, Spadaro, Giaccardi, Lorizio, Massironi, Giovagnoli, Santerini e Cosentino, Zanchi e Alici.
Il rapporto tra cattolici e cultura va rilanciato senza timore nella situazione storico-spirituale odierna. Sussiste una certa stanchezza del pensiero cristiano, dovuta a fattori extra e intraecclesiali e al diffuso disorientamento, generato dalla velocità della vicenda contemporanea che non consente pause di riflessione. Sono stati già elencati alcuni tra tali fattori: la scarsa rilevanza della cultura cattolica, l’analfabetismo religioso, l’invasione inarrestabile della tecnoscienza nella vita di tutti i giorni, la difficoltà di reagire all’omologazione diffusa per riscoprire almeno una libertà dai miti e dai pregiudizi che dominano (la commissione che boccia all’unanimità la statua di una madre che allatta insegna molto!). Non di rado i credenti apprezzano di più le indicazioni “esterne”, accolte frettolosamente come “sacre”, mentre l’annuncio della Rivelazione rimane infecondo. I grandi eventi di massa, i festival dovunque, la spettacolarizzazione dilagante lasciano pochi frutti positivi. Viviamo forzosamente entro un “futurismo” secondo cui non c’è requie nel moto che supera a ogni istante se stesso, creando un habitat in balia di eventi che ci piovono addosso senza posa. Non in commotione Dominus: ma abbiamo ancora la possibilità di non essere “co-mossi” da ogni vento?
I grandi discorsi di papa Benedetto XVI che hanno segnato un’epoca, rimangono preziosi ma non bastano, se il contatto e la cura spirituale intensa da persona a persona non c’è più, se manca l’evangelizzazione da cuore a cuore. Già Benedetto aveva dato un segnale decisivo: il cortile dei gentili, «dove gli uomini possano in una qualche maniera agganciarsi a Dio, senza conoscerlo e prima che abbiano trovato l’accesso al suo mistero, al cui servizio sta la vita interna della Chiesa». Tener desta la ricerca di Dio tra agnostici e atei, e affermare il valore della vita umana, che non può non chiamare in causa Dio. È stato compreso il suo invito, o forse è stato stemperato nella realizzazione di convegni e discorsi? Viviamo in società liberali dove domina la clasa discutidora, come la definiva Donoso Cortés; la discussione infinita raramente tocca la vita.
Il cristianesimo è l’Incarnazione del Verbo. La cultura è la coltivazione del campo umano, e chi meglio del Verbum Caro dà soccorso? L’Incarnazione che penetra nella vita dei singoli e dei popoli, chiede ai credenti una responsabilità per il cielo e parimenti per la terra, per la cittadinanza celeste e per quella terrena. Nella crisi di certezze il pensiero credente, non dando il là ai movimenti della cultura, si trova sempre alla rincorsa. Deve muoversi su un terreno dominato da fattori esterni, imposti dalla potenza del complesso scienza-tecnologia, verso il quale si nutre un eccesso di reverenza. Una fede che non è pensata e che non ispira l’azione non è una fede autentica. La prospettiva dovrebbe essere quella della fides quaerens intellectum, un tema permanente che si ripresenta a ogni epoca e svolta di civiltà. Non praticare questo ambito manifesta pigrizia e fuga dalla riflessione, oggi più di ieri, perché la storia precipita a valanga e occorre essere presenti. Anche se l’apporto cattolico risulterà modesto, l’essere stati presenti non si potrà mai cancellare. Nella ricerca tipica della fede deve emergere la carità intellettuale, diversa dalla retorica dei buoni sentimenti. Questa virtù non molto praticata porge rispettosamente il calice del vero come nutrimento della persona. Nella vita ecclesiale i santi dell’intelligenza sembrano meno onorati dei santi sociali della carità che operano a un livello di maggiore visibilità e concretezza, ma amore agapico e verità non possono che procedere a braccetto: operare la verità nell’agape, e vivere l’agape alla luce del vero.
C’è bisogno di dialogo e di cooperazione intensa tra fedeli laici e chiesa istituzionale, tra uomini e donne nella Chiesa, ma di solo dialogo si può morire, se non si rimette in moto il desiderio. I singoli e i popoli sono caratterizzati, molto più di quanto riconosciamo, dai loro desideri: la grande responsabilità dei credenti consiste dovunque nel nutrire il desiderio di vita e di bene. Chi lo promuove opera un cambiamento essenziale del vivere, e vale come un testimone indispensabile. È da meditare un pensiero leopardiano tratto dallo Zibaldone: «Sebbene è spento nel mondo il grande e il bello e il vivo, non ne è spenta in noi l’inclinazione. Se è tolto l’ottenere, non è tolto né è possibile a togliere il desiderare. Non è spento nei giovani l’ardore che li porta a procacciarsi una vita, e a sdegnare la nullità e la monotonia. L’ardor giovanile, cosa naturalissima, universale, importantissima, una volta entrava grandemente nella considerazione degli uomini di stato. Questa materia vivissima, e di sommo peso, ora non entra più nella bilancia dei politici e dei reggitori, ma è considerata appunto come non esistente». Leopardi prosegue osservando che mentre in antico questa materia giovanile era impiegata e ordinata alle grandi utilità pubbliche, ai suoi tempi invece non era né indirizzata in bene, né impedita nella sua possibilità di deflagrare e creare terremoti e disordini. E oggi? Un pensiero etico-politico dominato dal contrattualismo esibisce la sua scarsità pedagogica, evidenziando la necessità di educare facendo perno sulle radicali inclinazioni della persona umana. Queste ospitano l’amore per l’eccellenza e per i beni intrinseci rispetto a quelli strumentali, e distolgono dal vuoto libertismo dei singoli.
Nella rettificazione e purificazione del desiderio sta forse il più alto scopo dell’educare. Il desiderio non può essere abolito, ma può essere raddrizzato, purificato e condotto in maniera retta alla sua soddisfazione. Qui il Verbum Caro, nonostante la nostra abituale storditaggine, fa risuonare l’inaudito e paradossale invito: «Fai come Dio, diventa uomo». Esso entra nella profondità della storia di ognuno, invitando i credenti a non disertare. Diventare uomo è un’impresa tanto ardua che Dio stesso ha dovuto darci l’esempio.