domenica 27 settembre 2015
Il complesso svelerà presto i progetti per il mezzo secolo: parla Linda, la figlia dell'autore che scelse di tornare dietro le quinte.
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Domani i Pooh presenteranno a stampa e fan quanto hanno studiato per celebrare il loro cinquantennale, che cadrà nel febbraio 2016. E una domanda sorge spontanea: quali possono essere gli ingredienti di un successo tanto longevo, basato su una qualità media sempre alta della proposta? Sicuramente di uno degli ingredienti più importanti, purtroppo, oggi si può solo parlare al passato: il suo nome era Valerio Negrini, e proprio l’anno prossimo avrebbe compiuto settant’anni. Nato a Bologna nel 1946, Negrini anzitutto ha fondato i Pooh: col chitarrista Mauro Bertoli (il primo della formazione storica a entrare nella band, Roby Facchinetti, l’avrebbe fatto solo qualche mese dopo il debutto). Poi, dopo cinque anni da batterista, ha sì lasciato le luci della ribalta, ma non i Pooh: di cui è rimasto, sino alla scomparsa avvenuta per un infarto a inizio 2013, la colonna portante nascosta. Definito infatti da molti «il quinto Pooh», almeno riguardo la composizione base della band in quartetto prima dell’addio di D’Orazio nel 2009, Negrini ha vergato più di tre quarti dei testi del gruppo. E la sua qualità di scrittura – fra l’altro è stato il primo a togliere le rime baciate dal pop, ben prima di Mogol – non solo si è sposata bene alla classe compositiva di Facchinetti, Battaglia e Canzian; l’ha anzi sublimata, sia nel cantar d’amore che nell’osare temi affatto scontati: dai carcerati (la storica Pensiero  parla di loro) a zingari, violenza sulle donne, apartheid, minaccia nucleare, Tangentopoli, piazza Tienanmen. Senza scordare la capacità unica di concentrare in pochi minuti di poesia in musica il mito del Parsifal o la storia degli Incas. La vedova Paola Negrini molto sta facendo, per tenere vivo il ricordo di questo poeta a tratti paradossalmente penalizzato, nella memoria collettiva, dal successo sempre sotto i riflettori del “suo” gruppo; noi abbiamo provato a parlare di lui con chi è sangue del suo sangue. Ovvero la figlia Linda, venticinque anni, una delle tre eredi dirette di un signore il cui nome è un’ottima risposta, forse anzi la migliore, alla domanda su quali possano essere gli ingredienti dell’infinito successo dei Pooh. Quanto contavano per suo padre i Pooh? In fondo ne era uscito nel 1971, scegliendo la vita privata… « Contavano tantissimo. Come appassionato ascoltava anche musica molto diversa, ma nessuno poteva criticarli in sua presenza. Li considerava decisivi per la cultura popolare italiana. E poi li ha fondati lui, erano la sua creatura, il suo maggior successo». Non ha mai rimpianto di essersi fra virgolette legato troppo a loro? Scrivendo dunque poco per altri? «Sì e no. Ne era orgoglioso, in verità. Certo i Pooh hanno un loro linguaggio, con altri artisti avrebbe sperimentato cose diverse: ma scelse sempre loro». A proposito di collaborazioni fra Negrini e altri, i testi da lui scritti per Eugenio Finardi nel 1981 sembra parlino della deriva etica dell’oggi… «Con Finardi poté essere esplicitamente politico, in senso alto, ovvio. Ma anche In Italia si può dei Pooh, 1992, è politica: pare giocherellona invece è profonda, su Tangentopoli e non solo. Da donna sono poi orgogliosa di quanto ha scritto per Milva: certo è molto difficile per un uomo scrivere al femminile». Non gli dava fastidio, il non essere nominato spesso? «Non gli sarebbe piaciuto diventare noto per canzoni sbagliate, semmai… E poi scrivere era un’esigenza». Però non era una persona facile. Pensa che l’abbia un po’ pagato, quel suo avere un carattere complesso? «Tanto. Non era inquadrabile, era scomodo, spiazzava. E non sempre riusciva a mostrarsi com’era davvero». Di quali canzoni dei Pooh andava più orgoglioso? «Credo, e ovviamente parlo per quanto disse a me, di quelle su temi storici. Città proibita su Tienanmen, Lindbergh o L’ultima notte di caccia,  quando usava l’amore come accessorio per narrare d’altro». Ci sono brani in cui ha svelato qualcosa di sé? «Penso che in tutto quanto ha scritto, ci sia lui. Certo Air India  era un suo viaggio, Tu vivrai l’ha scritta quando stavo per nascere [è uno sprone a non buttarsi via cantato ai giovani,  ndr] e in Santa Lucia racconta di sé ragazzo a Bologna, quando il padre gli fece prendere per la prima volta un taxi». Che ne pensa dell’amore cantato dai Pooh? «A me sembra che papà sapesse cantare le donne vere, anche con molto romanticismo ma vere. Non le usava per parlare al maschile, come capita sempre. Penso a Le ragazze normali che alle nove di sera hanno un sacco di amici e poi vanno a dormire alle dieci, o a Quaderno di donna, dalla parte del femminismo anni Settanta. E poi Scusami: non è facile scrivere che rinunci a un amore perché non provi nulla di forte». Quali sono per lei le canzoni più belle di Negrini? «Su tutte metto Domani, che difatti i Pooh hanno ripreso apposta quando morì. Poi Il silenzio della colomba: uno stupro denunciato con delicatezza». E quelle da cui lei ha imparato qualcosa della vita? «Le cito Dall’altra parte,  il dolore di una persona normale costretta a vivere dietro la cortina di ferro. Ascoltandola ho capito il dramma della guerra fredda. Ma farei sentire nelle scuole Senza frontiere sull’apartheid: che poi si lega ai suoi obiettivi di quando iniziò, scrivere anche per denunciare o sottolineare problemi e vita vera». Aveva anche progetti, oltre che coi Pooh? «Stava scrivendo un libro, o almeno così mi diceva: non faceva leggere quanto scriveva finché non era finito… Doveva essere un volume su noi donne». Come vorrebbe venisse ricordato, Valerio Negrini? «Dando spazio a giovani aspiranti autori. Papà sapeva quanto fosse difficile emergere, oggi più di quando aveva iniziato lui: e sarebbe bello ricordarlo dando spazio, nel suo nome, a qualche talento sconosciuto». 
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