Che uomo fine e dolce era Mario Pomilio, la sigaretta tra due dita, gli occhiali che accentuavano il sorriso sul volto leggermente calvo e incantato. Lo conobbi a Palermo nel 1974, giurato del premio Cesi di narrativa inedita, lo avevo vinto molto probabilmente grazie alla sua e alla decisione di Bo e Battaglia, suoi amici. Avevo raccontato la storia di un santo inesistente, San Possilide, che il Concilio Vaticano II cancellava dal martirologio in quanto inattendibile, lasciandomi senza protettori celesti. Mi disse che lo aveva colpito l’intuizione del racconto in forma di parabola. Gli scrissi una lettera immediata e truffaldina accompagnandola a una raccolta di versi per i quali chiedevo una prefazione. Mi rispose che aveva letto ma che non era riuscito a trovare l’attacco, forse perché scarsamente convinto di quella poesia. Aveva ragione lui, non ero un poeta, ma in quel momento mi stimolò solo una reazione contrariata.Lo rividi un anno dopo a Bari alle Paoline per
Il Quinto Evangelio e stemmo con lui a casa di Edda Ducci, che ci insegnava Fondamenti della Pedagogia, a una cena parca in Corso Vittorio Emanuele. Appuntavo l’orecchio, perché Pomilio diceva poche parole e parlava a bassa voce, come dicesse cose lievi e impalpabili e siccome bisognava mostrare alla Ducci che avevamo letto, gli posi una domanda cattiva dettata ancora dal mio risentimento, se
Il Quinto Evangelista, protagonista del testo teatrale conclusivo del romanzo, non fosse figlio del
Grande Inquisitore di Dostoevskij, e se il documento scritto non fosse l’ennesimo che adduceva tra i tanti e se non negasse inavvertitamente ciò che aveva preannunciato, che esisteva cioè un Vangelo non scritto ma costruito nei secoli dai fedeli con la loro ricerca costante di Verità e di Parola. Mi chiese se condividessi almeno la sua intuizione, cioè il fondamento del romanzo. Beh, non potevo non condividerla. Con sussiego spiegai che venivo da letture di Dostoevskij, da
Timore e tremore di Kierkegaard, dalla
Letteratura dell’inquietudine di Guardini, ero impastato di esistenzialismi. In un atto di assoluta sincerità tuttavia dissi che mi sembrava avesse scritto un romanzo davvero geniale. Quella conversazione infatti, la delicatezza con cui aveva accettato e discusso i miei rilievi, avevano capovolto in un istante la mia devozione all’uomo, la mia stima per lo scrittore. E crebbe ulteriormente qualche anno dopo, quando esplose
Il nome della rosa e tutti più tardi con miopia dicevano che Eco aveva risvegliato il romanzo storico e il romanzo saggio e cose così. Dove mi fu possibile provai a difendere la primogenitura di Pomilio e il profondo impegno morale e storicistico dello scrittore abruzzese prestato alla vita napoletana. Inseguire o mascherare nelle storie dei grandi le proprie: Pomilio sfuggiva alla serenità cattolica e mostrava la sua malattia mortale attraverso l’inquietudine di Peter Bergin, l’ufficiale americano di stanza a Colonia che rinveniva un abbozzo di dramma gemmato dal disperso
Quinto Evangelio, un testo che completava i messaggi contenuti nei precedenti quattro. E fra Michele Minorita, il francescano perseguitato dalla Chiesa, fuggito in Basilicata all’alba dell’età umanistica, cercava tra le laure aperte sull’Appennino il silenzio e l’atmosfera adeguata alla sua febbre esistenziale e fideistica, lontano dalle gerarchie e più vicino allo spirito e alla parola di Cristo. Mi parve di cogliere Pomilio proprio in Fra Michele.Seguì un lungo vuoto tra noi, ma intanto ero stato convertito alla lettura dei suoi romanzi e nel 1979 trovavo riconfermati negli
Scritti cristiani le idee profuse nel suo capolavoro e con difficoltà riuscivo a rintracciare in libreria un romanzo di esordio che già nel titolo mi rinviava a Gino Montesanto,
L’uccello nella cupola. Era nato nel 1953, dopo che lo scrittore aveva assistito alle difficili acrobazie di una rondine prigioniera nel duomo di Teramo. Era stato a Parigi per un lungo periodo di studi, doveva aver accostato le letture giovanili fatte nella biblioteca di uno zio prete di Archi al clima di inquietudine narrativa che agitava allora la capitale francese, tra l’esistenzialismo ateo di Sartre e Camus e quello cristiano di Mauriac, Bernanos e Claudel. La rondine era lui, prigioniera del tempo e desiderosa di infinito. Don Giacomo, un parroco di Teramo, era costretto per una serie di circostanze a rimettere in discussione la propria scelta di vita e la propria missione. Questo romanzo mi apriva a un dilemma che trovai formidabile e insanabile nella vita di Pomilio, l’impegno politico. Figlio di un socialista arrestato nel ’42 e chiuso in carcere per un mese e di una donna profondamente cattolica, era stato in una formazione partigiana abruzzese che non aveva avviato azioni concrete di guerriglia solo per l’arresto di alcuni componenti del gruppo. Del contrastante influsso cattolico e socialista Pomilio lascerà testimonianza nel saggio
La generazione degli anni difficili e nel romanzo del ’65,
La compromissione. Marco Berardi, cittadino ancora una volta teramano, subisce una metamorfosi interiore nel clima di furberie politiche postbelliche e si lascia vincere dalla piattezza borghese man mano che si concretizza la sua compromissione con la politica democristiana. Una compromissione che Pomilio visse e discusse concretamente con se stesso, fino a candidarsi e a farsi eleggere come indipendente nella formazione cattolica di centro per le europee del 1989. Dentro e fuori. Accettava il compromesso con preoccupazione, con forte senso critico. Si sentiva cristiano ma non democristiano, vicino agli interrogativi del Concilio Vaticano II. Lo rividi al premio Oplonti a Torre del Greco. Michele Prisco ci aveva voluto entrambi in giuria. Pomilio era afflitto da una artrosi deformante alle mani che gli impediva per l’umidità, di trattenersi con noi nelle manifestazioni. Restava il tempo necessario, col viso atteggiato a preoccupazione e a sofferenza e poi spariva, negandoci quel sorriso tenue che gli avevo conosciuto fin da giovane. Fu una delle ultime volte che ci si vide e lo assimilai alle malinconie espresse nei romanzi
Il Natale del 1833 e
Il cimitero cinese, cioè a una immagine di consunzione, di dolore che lasciavano presagire un taglio immediato con la vita.