Venticinque anni fa, nel 1988, in un documento della
National Oceanic and Atmospheric Administration (Noaa), veniva citata per la prima volta la
Great Pacific Garbage Patch, l’enorme macchia di rifiuti di plastica suddivisa in due (e forse anche più) isole che si estende fra la California e il Giappone. Secondo alcuni questo mare di plastica avrebbe una estensione di 700 mila chilometri quadrati, ma altre stime sostengono invece che potrebbe estendersi per qualche milione di chilometri quadrati. Ma al di là di queste stime per difetto o per eccesso, resta il fatto che ci troviamo di fronte a qualcosa di veramente colossale. Definita «il più grave atto materiale d’inquinamento che la storia marina possa conoscere», la "grande macchia" di plastica ha iniziato a formarsi a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso ed è andata via via crescendo sotto l’azione incrociata di quattro correnti oceaniche che l’hanno circoscritta all’interno del Pacifico. Le statistiche indicano che un quinto della plastica viene gettato dalle navi, mentre il rimanente deriva dai rifiuti terrestri e – dal momento che la plastica è trasparente e galleggia sotto la superficie dell’acqua – non viene rilevata dalle fotografie satellitari e pertanto risulta molto difficile, se non impossibile, tenerla monitorata. Il primo a scoprire questa enorme discarica galleggiante è stato Charles Moore, un architetto americano titolare di una ditta di arredamento e con la passione del mare. La scoperta, come spesso succede, avvenne per caso nel 1977. Ritornando da una regata, infatti, Moore decise di prendere una rotta poco battuta del Pacifico per esplorare nuove zone dell’oceano e qui ebbe un primo incontro ravvicinato con questo enorme mare di rifiuti. Moore non credette ai suoi occhi e poco dopo organizzò una spedizione per misurare la quantità di immondizia. I risultati sono stati sorprendenti e indicano una media di 300 mila pezzi per ogni chilometro quadrato. Nel frattempo Moore vendeva la sua ditta di arredamenti e si dedicava anima e corpo allo studio di questo fenomeno, dando vita alla
Algalita Marine Research Foundation, per lanciare l’allarme e soprattutto per mettere in campo tutte le strategie necessarie per evitare che questo «sesto continente» – composto da rifiuti della cosiddetta civiltà e praticamente impossibile da eliminare – potesse allargarsi. La plastica galleggiante costituisce un serio pericolo per l’habitat; si ritiene che abbia causato la morte di 100 mila mammiferi marini e di più di un milione di uccelli che hanno scambiato per cibo siringhe, accendini e altri oggetti di plastica, come risulta dal fatto che molto spesso questi reperti sono stati trovati nello stomaco degli animali morti. E in certe zone costiere delle Hawaii si è scoperto che il deposito di rifiuti ha creato nel tempo un nuovo tipo di arenile dove c’è più plastica che sabbia. Non bisogna dimenticare che metà del peso della plastica è costituito dagli additivi, sostanze che vengono aggiunte per conferirle flessibilità e resistenza e che – essendo chimicamente e biologicamente attive – costituiscono un serio pericolo per la salute dell’uomo. Moore punta il dito anche sull’imballaggio delle merci: oggi si tende a imballare tutto con la plastica perché è un materiale che garantisce alla merce ottima protezione dall’acqua e dall’aria. Purtroppo, però, non esistono infrastrutture per gestire gli imballaggi che, una volta esaurita la loro funzione, vengono lasciati a se stessi e gettati. Il problema dello smaltimento è molto importante perché si stima che un quarto della plastica presente nella grande discarica del Pacifico sia costituita proprio dagli imballaggi.
È vero che esistono trattati internazionali che vietano la discarica della plastica nell’oceano, ma gli accordi non sono sufficienti perché la gente non li rispetta. Del resto – commenta amaramente Moore in una recente intervista pubblicata su Nuova Civiltà delle Macchine – non si può pretendere di installare sistemi di telecamere in ogni spiaggia per controllare se la gente getta in mare la plastica... Non resta, dunque, che affidarsi alla sensibilità delle persone e sperare in un’educazione ambientale che faccia capire alla gente come «il valore di una natura libera dall’immondizia è di gran lunga più grande della comodità immediata e consumare e gettare cose di plastica è un comportamento nocivo per tutti». Sembra per fortuna che qualcosa stia cambiando, perché sulla questione della biodegradabilità stanno emergendo proposte interessanti (vedi box qui sotto) che potrebbero davvero determinare una svolta decisiva e contribuire a risolvere una volta per sempre l’annoso problema dello smaltimento delle plastiche. Sono italiani i «polimeri del futuro». Da Bologna il materiale che si scioglie nell'acquaLa biodegrabilità, parola magica sbandierata da tutti gli ecologisti, sembra avere finalmente un roseo futuro grazie a un’invenzione tutta italiana. Peccato, però, che se ne parli poco. Il tutto nasce da un’idea di Marco Astori e Guy Cicognani: nessuno dei due è un chimico, provengono da studi di grafica e di marketing e insieme gestivano un’azienda di miocrochip; ma dal 2007 la loro vita è cambiata perché si sono dedicati completamente allo studio dei biomateriali. L’occasione si è presentata su un campo di sci, quando qualcuno ha fatto notare che le clip degli skipass a fine giornata venivano gettate in mezzo alla neve e d’estate questi pezzetti di plastica si trovavano sparsi per i prati, deturpando e inquinando l’ambiente. I due pensarono allora di creare un materiale biodegradabile e dalla fermentazione di batteri che si nutrono degli scarti di lavorazione della barbabietola da zucchero sono riusciti a creare i polidrossialcanoati, definiti «i migliori polimeri del futuro». In pochissimi giorni infatti tale materiale si dissolve completamente nell’acqua senza lasciar tracce, quando invece occorrono 5 secoli per smaltire la classica sportina di plastica, un secolo per una bottiglia o addirittura mille anni per una scheda telefonica... I nuovo polimeri sono prodotti dalla BioOn, che ha il quartier generale a Minerbio (Bo) ed è stata l’unica azienda italiana nominata per il premio sulle nuove tecnologie. «Forse – commenta Astori – stiamo trattando qualcosa che è più grande di noi, ma è emozionante e ci crediamo». I batteri, dunque, ci daranno una mano per salvare l’ambiente; e anche l’architetto Enrico Iascone, quando ha disegnato l’impianto bolognese, ha reso loro omaggio dando al complesso la forma di un batterio.