Le tre pietre d'inciampo poste davanti alla Questura di Roma - Courtesy of Polizia di Stato
“Non vi preoccupate, vi raccomando mia moglie e i miei figli”, fece in tempo a dire ai colleghi il vice brigadiere di pubblica sicurezza Pietro Ermelindo Lungaro la mattina del 12 febbraio 1944, quando le SS tedesche lo arrestarono all’interno della Caserma “Sant'Eusebio”, per poi condurlo nella famigerata prigione di Via Tasso, a Roma. Da giorni Lungaro, che aveva aderito al Partito d'Azione e aiutava segretamente chi provava a resistere alle brutalità del nazifascimo, presagiva che sarebbe potuto accadergli qualcosa. "I nostri figli sapranno educarsi da soli", aveva replicato alla moglie, che lo invitava a usare maggior prudenza. E ai bambini aveva detto, paterno: "Voi non potete capire cosa significa la parola libertà”. Una fedeltà al suo ideale che pagò col prezzo più alto: torturato a lungo, non rivelò mai ai carnefici i nomi dei suoi compagni. E venne incluso nell'elenco dei 335 detenuti fatti trucidare il 24 marzo da Kappler alle Fosse Ardeatine, come rappresaglia all’azione gappista di Via Rasella. Poco tempo dopo, sua moglie diede alla luce il loro terzo bambino e gli mise il suo nome. Da allora sono trascorsi ottant'anni, ma il ricordo del coraggio di quel poliziotto - onorato con la medaglia d'argento al valor militare - e di tanti altri non si è mai affievolito. Le loro storie, affiorate dagli archivi della Polizia di Stato, sono diventate patrimonio comune dell'amministrazone del ministero dell'Interno, accanto a vicende ormai note, come quella del questore reggente di Fiume Giovanni Palatucci, il poliziotto irpino che salvò migliaia di ebrei dallo sterminio, morto nel lager di Dachau il 10 febbraio del 1945 e e di cui è in corso la causa di beatificazione.
Da Aosta a Roma, quelle pietre d'inciampo davanti alle questure
Per ricordare il sacrificio eroico di Lungaro e di altri due suoi colleghi - Emilio Scaglia e Giovanni Lupis, chiamati i "martiri della vigilia" perché fucilati al Forte bravetta di Roma il 3 giugno 1944, il giorno prima della liberazione della Capitale da parte degli Alleati -, davanti alla Questura romana sono state appena poste tre pietre d'inciampo, nel corso di una cerimonia toccante alla quale ha preso parte anche Pietro, il terzo figlio del brigadiere, ormai coi capelli bianchi e commosso per le parole spese dal ministro dell'Interno Matteo Piantedosi e dal capo della Polizia Vittorio Pisani in ricordo di quel coraggioso papà che lui non fece in tempo a conoscere. Da tempo, la Polizia di Stato ha aderito alla iniziativa "Stolpersteine - pietre d’inciampo”, ideata oltre 30 anni fa dall'artista tedesco Gunter Demnig con l'intento di originare nell’osservatore un inciampo emotivo e mentale, mantenendo viva la memoria delle vittime dell’ideologia nazifascista in luoghi della loro vita quotidiana (la casa, il luogo di lavoro), invitando ogni viandante a riflettere su quanto accaduto, per non dimenticare. Le prime pietre di inciampo dedicate a poliziotti sono state collocate nella ricorrenza del “Giorno della Memoria” del 2022, davanti alla questura di Trieste per ricordare appunto Giovanni Palatucci e un altro funzionario di Ps, Feliciano Ricciardelli, sopravvissuto agli orrori di Dachau. Un'altra sta ad Aosta, in memoria di Camillo Renzi, deceduto in un lager nel febbraio 1945. Chi dovesse passeggiare davanti alla questura di Udine ne potrebbe scorgere ben nove, a ricordo di altrettanti poliziotti, periti in diversi lager nazisti, come Mauthausen e Buchenwald: Filippo Accorinti, Alberto Babolin, Bruno Bodini, Giuseppe Cascio, Mario Comini, Antonino d’Angelo, Anselmo Pisani, Mario Savino, Giuseppe Sgroi. A loro va aggiunto il nome del maresciall Spartero Toschi, che da quell'inferno di stenti e crudeltà, benché assai provato, riuscì a tornare. Furono in molti, semplici guardie e graduati, ad ascoltare la voce della propria coscienza e ad anteporre la propria etica alle soverchierie dei militari nazisti. A fine gennaio, a La Spezia, nel selciato sono state incastonate le pietre che ricordano i commissari Nicola Amodio e Lodovico Vigilante, la guardia Annibale Tonelli e l'ausiliario Domenico Tosetti, l'unico dei quattro che si salvò dalle sevizie del lager di Mauthausen.
Palieri, il commissario-eroe del Reatino
E toccanti sono anche le storie, che arrivano da Rieti, dei commissari Filippo Palieri e Salvatore Poti, entrambi deportati nel campo di sterminio di Wietzendorf, per "mancata collaborazione", espressione dei burocrati del Fuhrer che non rende l'idea di quanto coraggio ci volle, a entrambi, per disobbedire a disposizioni ingiuste e crudeli. Palieri, nel settembre del 1943, si oppose all’ordine del comando tedesco di arrestare in quarantotto ore 300 artigiani, tecnici ed operai specializzati e autisti reatini, destinati a essere deportati in Germania per il lavoro coatto: pur sapendo quanto rischiava, il commissario nascose alle autorità tedesche la lista di nominativi e avvisò personalmente quegli uomini del pericolo, consentendo a molti di loro di rendersi irreperibili. Alcuni giorni dopo, ancora Palieri rifiutò di eseguire un ordine di rappresaglia. A quel punto, i nazisti lo fecero arrestare e deportare.Sarebbe potuto fuggire, per nascondersi nelle montagne della Sabina, ma non lo fece per timore che i tedeschi sfogassero la loro frustrazione sui suoi cari (come poi sarebbe accaduto alla cognata Lilia Annesi, imprigionata in via Tasso a causa della irreperibilità del marito Marcello Perez, aderente alla Brigata Matteotti). Di lui, in un rapporto del 12 novembre 1943, l'allora prefetto di Rieti scrisse: «Il funzionario in oggetto, proveniente da Roma, assunse servizio presso la locale Questura in data 16 luglio 1935, espletando sempre il suo servizio con zelo ed intelligenza. Iscritto al partito fascista il 21.4.1940, non ha dimostrato attaccamento al fascismo, per cui il 4 ottobre 1943 venne tratto in arresto dal Comando Militare tedesco ed internato in Germania ove tuttora trovasi. E’ ammogliato con 3 figli». Deportato in Polonia, prima a Luckienwalden e quindi a Wietzendorf, Palieri rifiutò sempre qualsiasi forma di collaborazionismo con gli invasori tedeschi: l'ultima gli venne proposta il 19 marzo 1945, mentre si trovava, provato da stenti e sofferenze, nell’infermeria del lager. Per punirlo, i nazisti interruppero le cure e lo rimandarono fra i prigioneri. Morì il 13 aprile, poco prima della liberazione del campo. Ma lasciò un diario a Poti, collega e compagno di prigionia, che riuscì a salvarsi e a tornare in Italia. Alcuni passi di quel racconto, vivido e capace ancora oggi di commuovere chi legge, si trovano nella sua biografia, scritta dal figlio Rodolfo: "Oltre il lager. Filippo Palieri un eroe cristiano nell'inferno di Wietzdendorf". Una delle tante storie che fanno pate del progetto “Senza memoria non c’è futuro”, destinate a entrare nelle pagine di due volumi (arricchiti da un contributo della senatrice Liliana Segre), dedicati ai poliziotti che “facendo la scelta giusta” si opposero al nazifascismo e soccorsero i connazionali di fede ebraica, ai quali il regime dava la caccia. Il loro ricordo, inciso nel metallo lucido delle pietre d'inciampo, è ora patrimonio comune del Paese.