La forbice è larga, al punto che, con un colpo di scena, potrebbe anche succedere che prima o poi si scopra che quest’anno cadrebbe il sesto centenario della sua nascita. La povertà di documenti in merito alla vita di Piero della Francesca, molti distrutti in un incendio negli archivi di Sansepolcro, è tale che gli storici ne collocano la nascita fra il 1406 e il 1416 (certissimo invece il giorno della morte, 12 ottobre 1492, lo stesso della scoperta dell’America). A questo si somma la frammentarietà o l’intermittenza cronologica del corpus pittorico, e si deve considerare che la stessa
Madonna del Parto fu riscoperta come opera autografa soltanto sul finire dell’Ottocento, ipotizzando una data di esecuzione attorno al 1459, quando Piero si recò a Monterchi per la sepoltura della madre. A lungo hanno pesato su quest’opera interpretazioni contrastanti: chi l’ha connessa di contrappunto al sentimento della morte: come elaborazione del lutto, ma anche sviati dal fatto che a fine Settecento l’area della chiesetta originaria fu scelta per collocarvi il cimitero e l’edificio venne in gran parte demolito, l’affresco staccato a massello, e ricollocato in una nicchia dell’altare maggiore. Nel 1789 un terremoto danneggiò l’edificio e l’opera cadde nel dimenticatoio, finché esattamente un secolo dopo un erudito Vincenzo Funghini non la restituì a Piero. Il fatto di essere esposta nella Cappella attigua al cimitero, ha portato alcuni a vedere nel dipinto un pensiero sulla morte inscritto nell’immagine della nascita (prescienza, che peraltro connota il tipo stesso della Madonna incinta), traendo conclusioni forzose sul senso dell’iconografia. Ne fu suggestionato anche Marc Chagall, del quale Papini riportò nel 1954 queste parole pronunciate dopo una meditazione davanti all’affresco di Piero: «Allora capisco. È la vita che sta per nascere dal ventre materno nel luogo della morte? Ma questa è un’idea immensa!». Questo per dire quanto l’arte “non eloquente” di Piero – così la definì Bernard Berenson in uno dei suoi saggi brevi più ispirati – faccia sproloquiare la critica e gli ammiratori di Piero, in particolare nell’ultimo secolo, quando la mole delle interpretazioni e delle ricerche è crescita a dismisura e ogni anno cresce. Per questa sovraesposizione forse si è voluto tentare a Forlì l’impresa impossibile: ricostruire il mito di Piero nei secoli. Per la verità, Antonio Paolucci, che molto si è dedicato allo studio di Piero nella sua opera di storico dell’arte, nel 2007 aveva intrapreso questa strada con la mostra ad Arezzo sulla presenza e influenza del pittore nelle corti italiane (da Ferrara a Rimini, da Urbino a Firenze). Ma, appunto, l’impresa era solo un assaggio limitato all’epoca, tanto più che si proponeva come mostra per il pubblico, ma nella realtà si rivolgeva agli addetti ai lavori: solo sette le opere di Piero esposte, mancavano capolavori come il Battesimo di Londra, la Pala di Brera, la Flagellazione di Urbino. Quasi a mettere le mani avanti riguardo a analoghi appunti sulla mancanza di opere importanti del pittore, questa mostra forlivese si prefigge di indagarne il mito fino, e in particolare, al Novecento. Ma se ad Arezzo c’era quanto meno l’appoggio stabile del ciclo d’affreschi più importante di Piero, quelli della Vera Croce, qui a Forlì il suo nome diventa quasi un richiamo civetta: quattro opere dipinte, fra cui la discussa
Madonna col Bambino di Newark, che lascia molti ancora dubbi sulla sua autografia, nonostante l’autorità di Longhi che nel 1942 la aggiungeva nella sua monografia come opera di Piero, salvo poi qualche oscillazione negli anni Cinquanta. La forte illuminazione sotto cui la si espone tende a sbiancare i colori della tavola a tempera, uniformandola a quella luce mentale che rende le figure di Piero presenze antiche, tacite sibille e per questo ipereloquenti, cioè capaci di suscitare infiniti pensieri e analogie... Se l’illuminazione fosse più giusta, forse si percepirebbero meglio nel colore e in particolare sui volti delle due figure quello sfarinamento e quel sospetto d’ombra che corrobora l’impressione di un pensiero luttuoso, una tentazione a far salire alla superficie quel tono cenerino che sposta la freccia dell’orizzonte da cui può venire fuori il nome del vero autore verso il Nord. La datazione precoce – l’opera più antica che si conoscerebbe di Piero – e l’attribuzione può poggiare su dettagli come gli alberelli sullo sfondo nel paesaggio che sembrano ritornare poi nel
San Girolamo in preghiera, datato però vent’anni dopo circa, dove è proprio la materia compatta e i toni più saturi, e il disegno sintetico e tagliente, a rendere problematico il confronto. Sembra strano che quel giovane, ma forse già maturo pittore, sia transitato da forme più morbide a quelle più incise e vicine a un disegno a tarsia, e nel mezzo abbia battuto la strada più “tradizionale” del fondo oro nella
Madonna della Misericordia. E così abbiamo evocato tre dei quattro dipinti esposti: l’altro è la tavola di
Sant’Apollonia di Washington, dove il
craquelè prodotto dal tempo nella materia del colore offre quasi una metafora interpretativa della pittura di Piero, quel suo tendere a una plasticità solida, propriamente scultorea, che si distilla in forme “non eloquenti” in quanto suscettibili di significati mai veramente svelati. E si capisce perché la Metafisica italiana abbia pescato anche da Piero: ma l’enigma e la “non eloquenza” non sono sovrapponibili, magari per ermetismo e poesia, così come il manichino, il dio ortopedico di De Chirico, poco ha a che fare con le figure-colonna, con la pittura-volume, di Piero. Chi forse l’ha compreso meglio è Degas, che nel suo bozzetto per Semiramide fonde una molteplicità di influssi: nelle figure e nella luce, Piero; nella chiarità sporca dell’aria da cui emergerà il fantasma di Babilonia, Turner; e nella rarefazione del tono anche Corot. Ma certo Seurat raccoglie di Piero il distillato ottico, visibile nei due quadretti esposti che hanno propriamente una essenza monumentale (nel paradosso della dissolvenza luminosa). In ogni caso, l’indagine sul mito finisce per associare troppi nomi che, alla prova dell’occhio, sono talvolta distanti da Piero. Esiste una tradizione italiana che da Giotto passa per Piero e arriva fino a Caravaggio (non a caso tre punti fermi del discorso critico longhiano). Ed ecco Macchiaioli, Metafisica, Realismo magico, Novecento. Tutto può essere paragonato e, un istante dopo, messo in questione: per esempio, Sciltian, Ferrazzi, Donghi, Carena, Puvis de Chavannes, persino Guidi e Carrà; mentre Casorati, con la sua
Silvana Cenni, nella struttura e nella forma ci dà uno dei quadri più pierfrancescani del Novecento, Morandi nei suoi paesaggi si misura con l’atarassia luminosa che rende immobili e vive le figure di Piero, e meglio sarebbe stato accostarvi qualche paesaggio calcificato di Balthus, piuttosto che i suoi soliti quadri di figure; Hopper dipende più dai francesi e dai tedeschi del tardo Ottocento che da Piero; Campigli, Gentilini, Cagli, Gaudenzi, Capogrossi, Funi declinano in modi diversi e diverse focalità, la lezione costruttiva della forma-colore di Piero, ma, alla fine, il silenzio da sfinge della sua pittura si svela in uno spazio definito da forme solide che risuonano dei rumori di fondo della vita. Non a caso, uno dei compositori più astratti del Novecento, Morton Feldman, a proposito di Piero scrisse: «La superficie sembra essere semplicemente una porta da cui accedere all’esperienza del dipinto come totalità», così che la superficie non esiste nemmeno più: «il risultato è una forma di allucinazione».