Ponna, Italia. Trecento anime o giù di lì in Val d’Intelvi, in quella parte della Lombardia che guarda la Svizzera da vicino. Tre frazioni (di sopra, di sotto e di mezzo), in una suddivisione che già alimenta fugaci sospetti, sporadiche voci malevole. Ma basta l’arrivo di un qualsiasi “forestiero” perché tutta Ponna si ricompatti. A suon di pettegolezzi, se non altro. «La funzione originaria del pettegolezzo è proprio questa: garantire la coesione sociale, permettendo al gruppo di reagire alle eventuali, o presunte, minacce», spiega don Stefano Guarinelli, docente di Psicologia al Seminario arcivescovile di Milano e autore di diversi volumi sulla condizione del sacerdote, tra cui
Il celibato dei preti (Paoline, 2008) e
Il prete immaturo (Edb, 2013). Ponna, lui, la conosce bene, tanto da adoperarla come sfondo del suo nuovo libro, intitolato
La gente mormora (Paoline, pagine 232, euro 14), che propone un’argomentata e a tratti esilarante “psicologia del pettegolezzo”. Argomento serio, anzi serissimo, sul quale è tornato a più riprese anche papa Francesco lamentando la presenza delle malelingue negli ambienti ecclesiastici. «Ma è proprio la gravità della posta in gioco a esigere un po’ di ironia», osserva don Guarinelli.
Di solito si considera il pettegolezzo una risorsa dei perdenti. Lei, al contrario, lo presenta come uno strumento di potere. Perché? «Il dato di partenza, a mio avviso, è rappresentato dalla consapevolezza di come ogni gruppo, grande o piccolo che sia, sia dotato di una personalità autonoma, capace di attivare in modo spontaneo una serie di dinamiche mirate a garantire la sopravvivenza del gruppo stesso. Il pettegolezzo è uno di questi elementi e il suo compito è appunto quello di assicurare la coesione nel momento in cui si manifesta una qualche diversità, non importa se dall’interno o dall’esterno del gruppo. È una forma di automedicazione, se così vogliamo chiamarla. Molto efficace, in quanto consente di tenere sotto controllo l’elemento di disturbo. E molto pericolosa, in quanto basata su mezze verità, su distorsioni più o meno coscienti, talvolta su deliberate falsità».
Viene prima il pettegolezzo o prima il pettegolo? «Prima il pettegolezzo, non c’è dubbio. Il pettegolo, però, non è dispensato dalle sue responsabilità, che a loro volta hanno una storia, provengono da motivazioni più o meno riconoscibili. In linea di massima, direi che i soggetti più vulnerabili sono quelli che hanno una vita poco soddisfacente sul piano affettivo. In questi casi la maldicenza diventa un’occasione per compensare altre mancanze, oltre che per dare sfogo al risentimento».
Lei sa che cosa sto per chiederle, vero? «Vorrà sapere come mai il pettegolezzo è un problema per la Chiesa, immagino».
Esattamente. «Provo a rispondere così. Quello dal celibato in sé al celibato per il Regno dei Cieli non è un passaggio semplice né immediato. Va coltivato, conquistato giorno per giorno. Se questo non accade, a essere compromessa è anzitutto la sfera dell’affettività, con le conseguenze che si possono immaginare. Sto cercando di dire che la debolezza non sta nel celibato in quanto tale, ma in un certo modo risentito di vivere il celibato stesso. Il dato strutturale è semmai un altro».
Quale? «Nel sacerdozio, come in ogni forma di vita consacrata, la vita professionale coincide di fatto con quella affettiva. Non esiste soluzione di continuità e, in questo modo, vengono a mancare quelle occasioni di compensazione che, in altre situazioni, aiutano a conservare l’equilibrio interiore. Il ricorso al pettegolezzo, in questa prospettiva, può trasmettere l’illusione di esercitare potere sugli altri, di non sentirsi più in credito nei confronti della vita. Il nodo da sciogliere riguarda il nesso, solitamente trascurato, che si instaura tra celibato e potere».
Ci sarà pure un rimedio, no? «Senz’altro ci sono atteggiamenti da evitare. Lo scontro frontale, per esempio, finisce spesso per rivelarsi del tutto controproducente, trasformando la smentita in una forma di complicità, sia pure involontaria. A lungo termine, la strategia più appropriata consiste nell’agire sulle dinamiche del gruppo. Per restare in ambito pastorale, occorrerebbe maggior attenzione per il benessere dei gruppi ecclesiali, che sono sempre qualcosa di più grande e di più complesso rispetto alla somma degli individui che li compongono. Anche nei percorsi formativi all’interno della Chiesa, del resto, ci si concentra quasi esclusivamente sul singolo, che però non elabora la capacità di gestire correttamente la dimensione comunitaria».
Sì, ma nell’immediato? «Non resta che affidarsi all’intuito, mettendo in atto le iniziative che, di volta in volta, possono scoraggiare il rilancio. Davanti al pettegolezzo si cambia discorso, si mettono in risalto le doti positive della persona di cui gli altri sparlano, si evita qualsiasi ambiguità di giudizio. Senza mai dimenticare che il pettegolezzo non è solo fastidioso: può fare male, molto male. Ed è per questo che il Papa invita a combatterlo».