«Quante volte persone che hanno già dato la loro vita o che sono morte continuano a essere lapidate con la pietra più dura che esiste al mondo: la lingua». Ancora: «Su questo punto, non c’è posto per le sfumature: se parli male del fratello uccidi il fratello. E, ogni volta che facciamo questo, imitiamo il gesto di Caino, il primo omicida». Papa Francesco torna continuamente e con forza sul peccato del pettegolezzo, forse perché è il più diffuso e, insieme, il più difficile da combattere. Il pettegolezzo, infatti, è figlio primogenito dell’invidia, cancro che consuma cuore e mente, fino a quando si certifica la perdita subita da un fratello (a volte con-fratello) o da una sorella. In altre parole, il peccato del pettegolezzo – che diventa reato nella forma della calunnia e del sospetto – è il frutto dell’invidia, che attesta la massima inconsistenza dell’umano. L’invidia, infatti, non desidera avere ciò che l’altro possiede; piuttosto, desidera radicalmente che l’altro non disponga di ciò che io non possiedo oppure ho perduto. Decisamente distruttiva, l’invidia è pronta a ogni violenza, purché l’altro non possa godere di qualcosa di cui io non godo. Essa genera la menzogna, che mira a rendere tutti identici, a partire da sé o, meglio, dal- l’amore di sé, dalla
filautìa. Un’immagine biblica? Il serpente. La tradizione mesopotamica lo identifica con il chiacchierone; quella egizia ne evidenzia l’ambiguità: il suo veleno è morte e farmaco insieme. Superficialità di parole e ambiguità sono le caratteristiche anche del pettegolo e del calunniatore, che seducono con parole di menzogna. Il diavolo è il padre della menzogna e quando mente parla del suo (cfr. Gv 8,44). Il tentatore lusinga attraverso l’effluvio di parole sinuose e ambigue; anzi seduce in maniera paradossale chiedendo a Adamo ed Eva: «È vero che...?» (Gn 3,1). Il serpente introduce nel cuore di Adamo ed Eva, che partecipano della vita di Dio, la falsa immagine di un Dio geloso. Il serpente, lontano da Dio, brama che anche loro vengano allontanati e non ne posseggano più la prossimità, la confidenza e l’intimità. Vuole che loro non abbiano più ciò che lui stesso non ha. Ecco il frutto del pettegolezzo, della chiacchiera, della calunnia e della delazione: una folla di perdenti e di tristi, ripiegati nel rancore al punto da non riuscire più a sopportare neppure un seme di bene possibile. La cosa ancora peggiore – come emerge dai continui interventi di papa Francesco – è che l’aridità del pettegolo ormai non inquieta neppure più la coscienza. Sembra anzi che pettegoli e delatori si comportino come l’indemoniato dei Gerasèni che vivendo tra i sepolcri, nella putredine della morte, visto arrivare Gesù, gli domanda: «Che vuoi da me, Gesù, Figlio del Dio altissimo?» (Luca 8,28). Come se dicesse: «Lasciami stare in pace nella quiete della mia coscienza accartocciata e incatenata! ». Il pettegolo, come l’indemoniato, non vuole impegnare la propria libertà in una presa d’atto responsabile; preferisce l’oscurità gelida dei sepolcri alla gioia colorata della fraternità. Ha una competenza religiosa – proprio come l’indemoniato che «sa» di Gesù al punto che lo chiama correttamente «Figlio del Dio altissimo» – ma la usa al più come parodia della fraternità. La riflessione sul pettegolezzo si declina, di fatto, in termini di potere: se procuro all’altro una perdita – voglio che l’altro non goda di ciò che è precluso al mio godimento, sia esso un oggetto, una reputazione o un incarico –, allora sarà identico a me [...]. Con la comunicazione si avviano pratiche come i
rumors– declinati poi in pettegolezzo, calunnia e delazione –, attraverso vere e proprie strategie comunicative finalizzate a ottenere consenso, includere o escludere da gruppi sociali.