Al centro Andrea Pennacchi in "Le rose dell'Istria" - Fabrizio de Blasio
«Sono un uomo di sinistra, non credo sia un mistero per nessuno», ridacchia Andrea Pennacchi, appena uscito dalle prove di Arlecchino servitore di due padroni di Goldoni a Padova. Attore di teatro e drammaturgo, è noto al grande pubblico televisivo per la satira (anche politica) del suo esilarante personaggio, “il Poiana”.«Mi pare che ogni settimana in televisione dimostro come la penso…». Eppure la precisazione è d’obbligo, perché questa volta Pennacchi celebrerà da protagonista, in prima serata su Rai1, il “Giorno del Ricordo” dedicato alla tragedia delle Foibe e all’esodo di massa con cui istriani, fiumani e dalmati si sottrassero all’epurazione del maresciallo comunista jugoslavo Tito, alla fine della seconda guerra mondiale.
Sarà lui a vestire i panni del medico Antonio Braico nel film-tv La Rosa dell’Istria (regia di Tiziana Aristarco, coproduzione Rai Fiction-Publispei-Venice Film), in onda il 5 febbraio anziché il 10 febbraio (Giorno del Ricordo) perché Sanremo è Sanremo… Una storia vera liberamente ispirata al romanzo Chi ha paura dell’uomo nero dell’istriana Graziella Fiorentin, la cui rielaborazione televisiva è iniziata tre anni fa, molto prima del governo Meloni (altra precisazione d’obbligo, vista qualche pretestuosa polemica complottista).
Attraverso la storia della famiglia Braico (tipico cognome istriano), il film racconta le vicende accadute dopo l’8 settembre del 1943, quando la popolazione delle regioni adriatiche allora italiane si trovarono in una morsa letale, da una parte la calata degli jugoslavi e la prima ondata di infoibamenti, dall’altra l’ex alleato tedesco divenuto nemico. «Non restò che perdere ogni cosa e rifugiarsi nelle altre regioni d’Italia, affrontando l’ignoto, la povertà, il razzismo».
Dunque un attore conclamatamente di sinistra dà voce a una storia per decenni censurata, e tuttora a volte bollata come “di destra”. Qualche leone da tastiera già parla di tradimento.
Sono figlio di genitori comunisti, il che tra l’altro fa di me una minoranza perché nel Veneto bianco “genitori comunisti” vuol dire mosche bianche, se mi passa il gioco di parole. Quindi, ripeto, anche in questo momento estremamente confuso mi picco di essere uomo di sinistra. Mio papà a 17 anni era partigiano e per una soffiata è stato catturato e deportato nel campo di concentramento di Ebensee in Austria, mia mamma a 15 anni ha visto suo padre ucciso dai tedeschi e mio zio, il fratello di mia madre, era un partigiano pluridecorato della Brigata Garibaldi. Sono cresciuto con il mito della Resistenza. Però la storia degli istriani e dei dalmati un po’ la conoscevo perché sono figlio di genitori anziani – adesso si dice primipari attempati –, mio padre era del 1927 e mia mamma del ’29. O meglio, pensavo di conoscerla.
Diciamo che a scuola non l’ha studiata nessuno di noi, silenzio totale per decenni, forse lei ne sapeva qualcosa perché è nato in Veneto…
Credevo di conoscere bene quel periodo, sta di fatto che sapevo poco di ciò che era successo in Istria e al confine orientale italiano, nonostante la vicinanza geografica. Purtroppo è una memoria non particolarmente condivisa, molto viva in chi ha genitori e nonni istriani, decisamente meno nel resto degli italiani. Molto è cambiato negli ultimi anni, adesso a scuola si studia già di più perché vent’anni fa è stato istituito il “Giorno del Ricordo”, però da esperto del 25 Aprile posso dire che le varie Giornate, se non sono preservate con una pratica continua e un ricordo costante della loro importanza, diventano dei giorni più o meno di vacanza in cui si cerca di commemorare qualcosa. Un po’ come accade con i nomi delle strade: alla fine chi abita in una via raramente sa perché è famoso il personaggio a cui è dedicata e fatica a legarlo a una “memoria operativa”, cioè utile per la sua vita e per la vita politica della sua comunità. Insomma, ben vengano le Giornate, io sono favorevolissimo, anche rinfrescandole attraverso fiction, libri o film, però devono corrispondere ad un impegno attuale.
Prima di interpretare la parte del medico Antonio Braico si è documentato?
Ho letto vari libri e ho parlato con testimoni. Ho anche ascoltato con estremo interesse i racconti di vita vissuta di alcuni colleghi attori di Trieste, discendenti dell’esodo, persone che conosco bene e che stimo molto.
Che cosa racconta il film?
Legato al genere “melò”, è una storia nella grande Storia. Protagonista è una famiglia di Canfanaro, piccola cittadina dell’Istria, che negli ultimi mesi di guerra è costretta ad un esodo rocambolesco, perseguitata da una serie di pericoli. Infine, quando approdano in Friuli, i Braico si devono adattare a una nuova comunità che all’inizio li respinge. In questo travaglio doloroso, la giovane protagonista, nel film mia figlia Maddalena, scopre se stessa, scopre l’amore e scopre anche come portare con sé, attraverso la sua arte, la memoria della terra che ha dovuto lasciare. Io, medico e padre di tre figli, cerco di proteggere la mia famiglia, purtroppo non ci riesco sempre, però alla fine quasi tutti arrivano nella nuova patria. Come avvenne davvero a quella gente, da dottore mi adatto a fare l’operaio, ricomincio da zero. Mi ha toccato profondamente, perché al centro ci sono i piccoli, gli umiliati, gli offesi che affrontano la grande storia, però c’è anche il dramma familiare di un padre che appartiene a un altro secolo rispetto ai suoi figli e si trova a dover capire una figlia autonoma, che vuole fare l’artista e trovare la sua individualità. Un aspetto che mi riguarda perché anche io sono padre e nato in un altro secolo.
Il film mostra la ferocia del regime di Tito?
La cosa che mi piace molto è che si parla chiaramente di foibe e di tutto ciò che accadde in quegli anni, si vede con chiarezza il motivo per cui la popolazione è costretta ad abbandonare tutto ciò che ha, ma senza alcun compiacimento su immagini di violenza. In questo, c’è una delicatezza da tragedia greca. Inoltre la storia è soprattutto quella del dopo, ovvero la partenza e il dolore dell’essere respinti dagli italiani, ma poi il saper mettere radici in una nuova terra, come la rosa del titolo.
Nello straziante addio che disgregò una comunità secolare e la costrinse alla diaspora in tutto il mondo, gli esuli ricordano ancora oggi il sacerdote e il medico dei loro paesi, prima figure di riferimento per tutte le componenti etniche, poi nella fuga guide verso l’ignoto.
Il medico che io impersono, infatti, è appassionatamente italiano ma ci tiene ad essere il medico di tutti gli istriani, italiani o croati che siano. Tra i personaggi c’è anche un ragazzo croato che è amico dei miei figli e li aiuterà: il film non aveva i tempi per raccontare tutte le vicende storiche che avevano portato a tanta violenza piombata addosso a questa gente, però c’è lo spazio per rappresentare gli episodi di grande umanità. Antonio Braico non ha posizioni ideologiche, non è fascista, non è nemmeno nazionalista nel senso del Ventennio, è italiano e vive con passione la sua comunità, è anzi un elemento di spicco e come tale cerca di convincere altri a scappare con loro. Lo fa prima che le cose precipitino, quindi, pur nel pericolo, salva le persone che vengono con lui.
Che impressione le hanno lasciato queste storie reali, anche come figlio di partigiani?
La storia è molto emozionante, e questo è un fatto! Mi fa molto arrabbiare che sia ancora oggetto di lotta ideologica tra persone che non hanno niente a che fare con quella tragedia: ne fanno solo uno straccio da contendersi per muovere la pancia della gente, sul terreno di una politica che non appartiene neanche più a quelle ideologie. Perché questa è una vicenda di persone, di esseri umani che hanno perso tutto ciò che avevano, che hanno cercato di ricostruirsi un futuro da zero. Scoprire che è successo anche qui da noi ci può far capire che non siamo immuni da quello che sta accadendo lontano da casa nostra, dove altri popoli sono adesso in fuga e perdono la casa, la comunità, la lingua, tutto. Non è una barbarie inspiegabile caduta dal cielo, l’umanità se fa passi sbagliati può causare molte brutture e la guerra in generale non è la soluzione a niente. Cerco di dirlo senza retorica, è una cosa in cui credo molto.
Come ogni anno, il 10 Febbraio spunteranno negazionisti e, peggio, giustificazionisti.
Quando qualcuno sostiene che i partigiani sono assassini monto su tutte le furie, così – non dico allo stesso modo, perché di mezzo c’è anche la mia storia di famiglia – mi scaldo quando ancora sento dire “nelle foibe sono finiti quattro morti per sbaglio” o “se la sono cercata”. Negare la storia vuol dire essere condannati a ripeterla a breve.
Si scaldava già, prima di girare questo film?
Non mi arrabbiavo, ma sapevo che “lì” c’era un punto dolente. Avevo visto Magazzino 18, lo splendido spettacolo di Simone Cristicchi, per cui non ero completamente a digiuno, però è ovvio che quando sei dentro un lavoro così, in cui incontri persone del luogo, hai l’occasione di sapere, di confrontarti anche in maniera robusta, diventi più consapevole e inevitabilmente ti indigni se senti stravolgere i fatti.
Non è stato accusato di tradimento dall’Anpi o dalla sinistra estrema, per questa interpretazione?
Io spero che siano più intelligenti di così. Fino ad adesso non lo hanno fatto, sono socio dell’Aned, associazione degli ex deportati nei campi nazisti, e sono sempre stato un simpatizzante dell’Anpi, per cui sanno bene chi sono e conoscono le idee che continuo a portare avanti, peraltro tutte le settimane, alla televisione, dunque da loro non mi aspetto grida scomposte. Mi aspetto al limite critiche, spero costruttive. So che ci sarà qualche esagitato, ho già visto commenti sui social del tipo “vergogna, mi piacevi, adesso sei l’organo dei fascisti”, e naturalmente me ne dolgo… ma solo perché quando l’intelligenza viene spenta me ne dolgo sempre.
Con questo film, sente di contribuire alla causa della verità, non specificatamente nella vicenda degli istriani ma più in generale nel ritrovare un mondo più umano?
Umilmente, come artista mi pongo al servizio della giustizia. Almeno della giustizia narrativa, è già qualcosa. Spero tanto che vedendo il film la maggior parte delle persone metta da parte i preconcetti e ascolti la storia di questa famiglia, che genera forte empatia e fa capire come la memoria serva a illuminare il presente, mentre le prese di posizione a priori lo oscurano sotto un mantello di pregiudizi che non aiutano.
Lo fa anche sul fronte opposto, della Resistenza?
Da anni a teatro racconto la storia di mio padre, ne ho fatto anche un libro molto letto, “La guerra dei Bepi”, il nome di mio nonno, in trincea nella prima guerra mondiale, e il nome da partigiano di mio padre nella seconda. Sono felice perché sono stato chiamato dal presidente Mattarella a leggere alcuni brani alla Giornata della Memoria: lo faccio ogni volta che posso, ogni 25 Aprile racconto storie su questo tema.
Rispetto al libro pluripremiato dell’esule Graziella Fiorentin, fuggita da Canfanaro nel ’43 e oggi padovana come lei, ci sono molte differenze?
L’ispirazione è forte, molto precisa, ovviamente però sono due linguaggi completamente diversi, per cui gli sceneggiatori hanno necessariamente forzato alcuni aspetti e ne hanno inseriti altri che nel libro non esistevano, ma questo è inevitabile nel passare da una lingua a un’altra, diversa. Ad esempio la storia d’amore di Maddalena è modificata ma è fondamentale per la scoperta della sua passione per la pittura.
Le scene sono state girate in Istria?
No, perché l’Istria ha avuto un grande sviluppo per cui era troppo "moderna" per la storia da raccontare. Abbiamo girato per lo più in Friuli Venezia Giulia, ricco di ambientazioni incantevoli e molto varie, ad esempio Cividale del Friuli, le paludi, la zona attorno a Gorizia che è una meraviglia, il porto di Trieste dove effettivamente sono arrivati tanti esuli, insomma, tutti luoghi di infinita bellezza. Spesso questi fatti terribili avvengono in luoghi bellissimi, come se la natura ignorasse le miserie degli uomini, e questo nel film risulterà.
Ha visitato la vera Canfanaro?
Non so se ci andrò mai, preferisco avere una Canfanaro del cuore. In Istria sono stato ma quando ancora non ero consapevole, ora varrà la pena tornarci per vederla con occhi nuovi.
Fare l’attore può essere insomma una via iniziatica per scoprire l’uomo…
Sono diventato attore dopo aver preso tutt’altra strada: venivo dall’Istituto Aeronautico ed ero entrato in Accademia, poi in preda a una crisi mi sono iscritto al Centro Universitario Teatrale di Padova dove ho avuto grandi maestri… E mi sono innamorato perdutamente di questa arte strana che ti costringe a fare oggi un medico istriano e domani Arlecchino.