L’attore e regista Dario D’Ambrosi con gli artisti del Teatro Patologico
«La follia non viene mai ascoltata per ciò che dice o che vorrebbe dire». Parole eloquenti scritte nel 1982 da Franco Basaglia, lo psichiatra, fondatore della concezione moderna della salute psichica che rivoluzionò o tentò di riformare l’idea della malattia mentale e di quelli che fino agli anni ’70 erano i manicomi con la famosa legge 180 che prese anche il suo nome. Le cose, in realtà, non andarono proprio come lui avrebbe voluto ma il suo invito ad «ascoltare» la follia fu accolto da molti. Tra questi di certo figura un artista classe 1962 il quale afferma che senza i malati di mente non potrebbe vivere, che 30 anni fa fonda un genere e una realtà più unica che rara, il Teatro Patologico, e che in questi giorni ha dato vita al primo corso universitario al mondo di Teatro Integrato dell’Emozione rivolto a persone con disabilità fisica e psichica, in collaborazione con l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata.
Bastano questi due cenni biografici per caratterizzare la pazzesca, caparbia furia creatrice e sognatrice di Dario D’Ambrosi, il primo in Italia e non solo a sdoganare la follia, coniugandola con l’arte teatrale, esaltandola con la libertà espressiva per farla tracimare sul palcoscenico. Gioisce, esulta, abbraccia i suoi malati di mente come un fanciullo mentre gioca con loro a fare teatro, nella sede romana di via Cassia così come in tournée in tutto il mondo, perché sa che i suoi «mattacchioni» sono come i bambini, innocenti e come tali in grado di darsi in scena totalmente, senza remore, né riserve. E da cattolico fervente è convinto che anche «sul palco come nel regno dei cieli si può accedere solo con un cuore di bambino!».
E lui, che ha lavorato a fianco di Anthony Hopkins nel film Titus, ha interpretato il ruolo del flagellatore di Cristo in The Passion di Mel Gibson, è stato uno dei protagonisti della celebre fiction Romanzo Criminale, ha esordito a teatro a 20 anni a New York nel mitico Caffè La Mama di Ellen Steward, l’off Broadway per eccellenza, con il monologo Tutti non ci sono (la scritta apparsa sul manicomio di Aversa dopo la legge Basaglia) incantando tra gli altri De Niro, Lou Reed, Pina Bausch ed Andy Warhol; lui, che in quasi 30 anni di Teatro Patologico ha ospitato 5217 attori, 328 spettacoli, 347 autori e 338 registi, asserisce con altrettanta profonda convinzione che i suoi «pazzi» hanno molto da insegnare alla stragrande maggioranza degli attori «normodotati», anzi, rincara così la dose: «L’esperienza che ho avuto lavorando con persone disabili mi ha fatto scoprire come gli stati d’animo, i ritmi dei grandi attori, siano simili a quelli delle persone affette da un disagio psichico.
Anthony Hopkins, Mel Gibson quando recitano hanno quei tempi anticonvenzionali che io ritrovo nei miei ragazzi che durante i dialoghi in scena vivono pienamente il pre- sente, cercano di capirne il sapore e pertanto reagiscono con una tempistica originale, autentica e spiazzante. Io credo – chiosa D’Ambrosi – che lo stato emotivo della persona affetta da un disagio psichico offra la possibilità di una nuova formazione drammaturgica per l’attore futuro». Teoria balzana? Analisi farneticante? Difficile trarre certezze scientifiche da una materia così onirica e impalpabile; facile però evincere la concretezza inoppugnabile della frenetica e febbrile attività sia del suo festival, giunto alla ventiseiesima edizione, che accoglierà dal 24 febbraio al 26 marzo nel Teatro Patologico di via Cassia a Roma, 11 spettacoli tutti incentrati su tematiche etico-sociali, sia del suo corso di Teatro Integrato dell’Emozione che, attraverso la pratica di dieci materie (tra cui danceability, drammaturgia, musicoterapia, regia, recitazione, scenografia), offre agli utenti disabili psichici e fisici una preziosa possibilità di espressione artistico-terapeutica e di integrazione a livello sociale e professionale.
C’è del “patologico” in tutto ciò, ovvero una logica del pathos, una razionalità feconda che illumina la sofferenza, un raziocinio che dischiude il sentimento. E c’è del “patologico” anche in Dario D’Ambrosi che, proveniente da un’umile famiglia meridionale trapiantata al nord, prima trova nel calcio l’opportunità di salvarsi dalla violenza di San Giuliano Milanese e dalle frequentazioni di amici poco raccomandabili fra cui Renato Vallanzasca (D’Ambrosi da ragazzino era una promessa del Milan, giocava come ala destra assieme a Collovati e Skoglund), poi decide di internarsi per tre mesi nell’Ospedale Psichiatrico Paolo Pini di Milano per «evadere dall’infelicità» e scoprire nella pazzia germi di verità, e infine dedica la sua vita e mette i suoi talenti al servizio di «madama follia», ben consapevole che, come diceva «la poetessa dei navigli», Alda Merini, «la follia non ama essere oltraggiata, bisogna saper giocare con lei». E anche a D’Ambrosi, come alla Merini, «il manicomio non ha fatto altro che rivelare la grande potenza della vita».