La scena ricorda stranamente la sequenza iniziale di
The Hateful Eight, il nuovo film di Quentin Tarantino. Paesaggio invernale, personaggi che avanzano lentamente, una chiesa che si pone come «una presenza spirituale in un mare di fango, di esplosioni e di sangue». Non è un racconto di finzione, però, e l’ambientazione non è quella della Guerra civile americana. Siamo negli ultimi giorni del 1944 e i due uomini che sfidano la Wehrmacht salendo, zaino in spalla, verso il Santuario di Crea, sopra Casale Monferrato, rispondono ai nomi di Cesare Pavese e Franco Ferrarotti. Il romanziere della
Casa in collina e l’innovatore della sociologia italiana, amici fraterni nonostante i quasi vent’anni che li separano (Pavese è del 1908, Ferrarotti del 1926) e nonostante quell’altra differenza, tutt’altro che trascurabile in terra di Piemonte: il poeta di
Lavorare stanca è, com’è noto, un langarolo purosangue, mentre il futuro fondatore dei “Quaderni di Sociologia” va fiero delle sue parziali origini monferrine. Eppure si intendono a meraviglia, si confidano e, a guerra conclusa, collaborano con entusiasmo nel laboratorio torinese di via Biancamano, sede della casa editrice Einaudi. Una vicenda umana, intellettuale e anche spirituale che solo ora, alla soglia dei novant’anni, Ferrarotti si è deciso a rievocare nel dettaglio in un libro piccolo e prezioso in uscita da Edb. Si intitola
Al Santuario con Pavese (pagine 126, euro 11) e costituisce una sorta di prosecuzione o, meglio, di completamento del saggio sulla
Concreta utopia di Adriano Olivetti che Ferrarotti ha pubblicato presso lo stesso editore nel 2013 (a proposito: chi non conoscesse il documento capitale dell’avventura di Olivetti, il testamentario
Città dell’uomo del 1960, lo trova adesso nella nuova edizione curata da Alberto Saibene per Comunità, nella quale figurano anche alcuni testi finora mai raccolti in volume: pagine 308, euro 16). Favorito dalla comune militanza antifascista, praticata ancora una volta su versanti differenti, l’incontro tra Pavese e Ferrarotti è destinato a segnare un punto di svolta nel contesto culturale della neonata Italia repubblicana. L’accelerazione decisiva è costituita proprio da una delle traduzioni che Pavese affida a Ferrarotti per Einaudi, quella della
Teoria delle classi agiate dello statunitense Thorstein Veblen, a partire dalla quale lo stesso Ferrarotti elabora nel 1949 la sua tesi di laurea. In mancanza di altri docenti disposti a patrocinare la discussione, la dissertazione verrà “firmata” da Nicola Abbagnano, che presto si affiancherà all’allievo nella curatela dei già ricordati “Quaderni di Sociologia”. Ma anche all’interno della casa editrice la pubblicazione del libro di Veblen è stata oggetto di discussioni vivaci, come testimonia tra l’altro una delle due lettere inedite che Ferrarotti presenta e commenta in
Al Santuario con Pavese: sia Giulio Einaudi sia il filosofo Felice Balbo si dichiarano contrari alla prefazione stilata dal traduttore, che avrà modo di rivalersi nel corso di una polemica in cui sarà coinvolto perfino Benedetto Croce. Non meno importante, per la comprensione della libertà di giudizio di cui Pavese si fa portatore in ambito einaudiano, è la sorte di un altro libro tradotto da Ferrarotti,
Il rito religioso di Theodor Reik. Destinato alla celebre “Collana Viola”, vero e proprio avamposto antipositivista nell’altrimenti rigida ortodossia storico-materialista del catalogo Einaudi, il saggio di Reik è uno dei molti elementi che inducono Ferrarotti a contestare l’immagine di Pavese sostenuta solitamente dalla critica. A essere presa di mira è in particolare l’interpretazione proposta da Cesare Segre, che nella sua introduzione ai diari di Pavese,
Il mestiere di vivere, non perde occasione per ricondurre l’intera vicenda dello scrittore (compreso il drammatico epilogo del suicidio nell’agosto del 1950) a una dimensione privata, di disillusione ideologica e delusione sentimentale, nella quale non sembra trovare spazio la ricerca del sacro. Ferrarotti, al contrario, sostiene che la ribadita e quasi proverbiale laicità di Pavese, integerrimo sul piano morale ed estraneo agli eccessi su quello politico, non possa essere scambiata per laicismo intransigente. «Il rospo del mistero del divino» – come Ferrarotti scrive ricorrendo a una bella metafora campagnola – indica invece che in Pavese agisce «il bisogno di una trascendenza capace di dare valore alla miserabile, inerme e insignificante datità del pratico-inerte in cui gli uomini vivono immersi, disperati e nello stesso tempo anelanti verso un “totalmente altro”». Da qui, per esempio, il raffronto tra gli appunti del diario e il pensiero di Nietzsche, conosciuto da Pavese attraverso la miscellanea della
Volontà di potenza.Da qui, più che altro, la rivalutazione dell’autoritratto dello scrittore come «credente senza fede», continuamente tentato da un azzardo metafisico che ha tra i suoi antecedenti la riflessione di Giambattista Vico. «Credo lecito – afferma Ferrarotti – ritenere che Pavese fosse, a modo suo, un mistico di tutte le religioni e un credente in tutti i miti». Una definizione che corrisponde perfettamente al sentimento di ammirazione e nostalgia che pervade
Dialoghi con Leucò, il personalissimo tributo al mito classico che Pavese manda in libreria nel 1947, nel periodo in cui è più intensa la sua amicizia con Ferrarotti. «
Fuori e anche al di là, ma non contro le religioni storiche positive »: questo, secondo l’amico, il posto che spetta allo scrittore che proprio al Santuario di Crea, nella stagione più dura della guerra, potrebbe avere cercato conforto «nella religione degli antichi padri», tornando con la memoria ai «giorni dell’infanzia, quando si proibiva di deglutire per non infrangere la regola del digiuno prima di ricevere l’ostia consacrata».