giovedì 26 settembre 2013
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Più che un fantasma, è un phántasma. Scusate il grecismo, ma la distinzione è decisiva, come suggerisce Giuseppe Genna nella postfazione a Il fantasma di Dio di Ferruccio Parazzoli (il Saggiatore, pagine 272, euro 15). «È il mio libro dei libri», spiega l’autore, che ha allestito queste “ricognizioni dal sottosuolo” cucendo fra loro pagine inedite e materiali attinti dai suoi volumi precedenti, lungo un arco di quasi quarant’anni: il testo più antico, il romanzo O città, o Milano, risale infatti al 1976. Il risultato è quello lo stesso Parazzoli definisce «un poema sinfonico» o, in alternativa, «una divina commedia».Addirittura?«Guardi che l’espressione va intesa in senso letterale, e cioè teatrale – avverte lo scrittore –.Tutti i personaggi che salgono su questo palcoscenico portano con sé il loro fondale. A volte non sono neppure personaggi, ma nude voci. In comune hanno il desiderio di esprimere il grumo che si portano dentro dopo aver incontrato le orme lasciate da Dio nelle loro vite, nelle vite di tutti».Sì, ma perché parlare di “fantasma”?«La rassicuro: la morte di Dio non c’entra nulla. Il <+corsivo>phántasma <+tondo>è semmai la sagoma di qualcosa di inattingibile, che però l’uomo non può fare a meno di cercare. La letteratura, in fondo, è la cronistoria di questa ricerca».Anche la letteratura di oggi?«Oggi siamo vittime di un equivoco o, meglio, di un’illusione. Confondiamo la realtà con l’epidermide del reale, che viene esplorata in una prospettiva sostanzialmente sociologica: le relazioni, gli affetti, l’intimità… Ma in questo modo ci fermiamo davanti a un paravento, ci accontentiamo di piccoli frammenti di realtà ai quali diamo il compito di rappresentare il mondo in tutta la sua completezza. Così il fallimento è assicurato».Vuol dire che i dettagli sono irrilevanti?«Al contrario, è proprio lì, nei dettagli, che si nasconde la grandezza della realtà. Come la storia di Aladino, ha presente? Strofini la lampada e viene fuori un genio gigantesco. Che lì dentro, a rigor di logica, non potrebbe starci».Il grande nel piccolo: questo è il linguaggio della mistica.«È il linguaggio dell’umanità, se intendiamo la mistica nel suo significato etimologico, di esperienza del silenzio. Tacere, in sé, non ha nulla di sovrumano. È piuttosto la scelta più alta che l’essere umano possa compiere, la dimostrazione più piena della sua consapevolezza nel rapporto con il reale».Lei però è uno scrittore, e gli scrittori non tacciono.«Vero, e questo li espone alla tentazione, perché li costringe ad abitare “nel territorio del diavolo”. Purtroppo il vero principe di questo mondo è lui, Satana».La riprova viene dallo scandalo del dolore innocente?«Ogni dolore è innocente, perché è destinato a rimanere senza spiegazione. Nonostante questo, su di esso ci si arrovella. Sarà anche una partita persa in partenza, ma il mistero di tutto ciò che avviene si manifesta pienamente nel dolore, come in una fiamma».Nel suo “libro dei libri” ci sono molti preti alle prese con questo enigma.«Sì, nei miei romanzi ci sono sempre stati molti sacerdoti. Sono gli uomini che più degli altri hanno scommesso su Dio e, di conseguenza, i più esposti allo sconcerto davanti ai drammi della realtà. Non per niente, nell’ultima pagina del Fantasma di Dio richiamo in servizio il curato di Bernanos».«Tutto è grazia»: più in là non possiamo andare?«No, non possiamo. Non so se ha notato, ma a un certo punto nel libro c’è un piccolo racconto, una specie di apologo. Dopo la morte, l’anima dell’uomo incontra finalmente Dio. Me li immagino come due vecchi amici che, tra alti e bassi, si sono sempre voluti bene. Si sono fatti qualche dispetto, si capisce. Hanno perfino litigato. Ma adesso si guardano in faccia, scoppiano a ridere, si abbracciano. Ecco, per me questa è la grazia. Questa risata fraterna è l’ultima parola».Come le è venuta in mente questa immagine?«Parlando con un amico, appunto. E rendendomi conto del fatto che tutti hanno bisogno di pietà. Ne hanno bisogno gli uomini, ma anche Dio».Un’affermazione un po’ strana, non trova?«No, perché il Dio che è in mente è il Dio dell’Incarnazione, davanti al quale ho sempre provato uno stupore invincibile, assoluto. L’Incarnazione, per quanto mi riguarda, è più sorprendente della Risurrezione. Ed è per questo motivo che, quando ho provato a scrivere una vita di Cristo, ho voluto che Jehoschua parlasse di sé come di colui che è passato attraverso la morte. Uno come tutti, che ha conosciuto la ribellione del corpo davanti alla sofferenza. Da ultimo è il corpo che deve convincersi, è la carne che deve arrendersi».A un certo punto lei sostiene che il Vangelo non è un testo semplice…«Confermo: né semplice né chiaro. E neppure bello in senso tradizionale, se vogliamo metterla su questo piano. Ci si può anche commuovere leggendo il Vangelo, ma il punto non è questo».E qual è, allora?«Che perfino gli Evangelisti si rendono conto di non avere parole adatte a esprimere quello che hanno visto. Usano uno strumento umano nel tentativo di riferire qualcosa che, per sua natura, resta irriferibile. Ancora una volta, cerchiamo di parlare di Dio, ma riusciamo solo a riconoscere le orme del suo passaggio».
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