Papa Paolo VI (Ansa)
Pubblichiamo ampi stralci dell'intervento "Paolo VI e il Vangelo della pace" con cui il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato della Santa Sede, ha aperto il convegno "Paolo VI e il Vangelo nel mondo contemporaneo", in programma oggi e domani presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
L’impegno di Paolo VI per la pace e per una diversa azione diplomatica della Santa Sede si inserì in un più ampio sforzo perché, sulla spinta del Concilio, la Chiesa assumesse una chiara prospettiva umanistica . «Una simpatia immensa [per l’uomo] ha […] pervaso« tutto il Concilio Ecumenico Vaticano II e «la scoperta dei bisogni umani […] ne ha assorbito l’attenzione », disse Paolo VI nell’allocuzione conclusiva dei lavori conciliari, in cui rivendicò il merito di essere «anche noi, noi più di tutti […] i cultori dell’uomo ». Tale approccio umanistico non era, per Paolo VI, accessorio rispetto ai compiti della Chiesa, ma al contrario espressivo della vocazione più autentica di questa. Proprio perché sincera e non strumentale, il Papa sperava che tale sollecitudine venisse riconosciuta anche da chi non faceva parte della Chiesa. «Date […] merito [ad essa] di questo almeno, voi umanisti moderni, rinunciatari alla trascendenza delle cose supreme, e riconoscerete il nostro nuovo umanesimo » [...].
In questi anni, Paolo VI ebbe parole non solo di speranza cristiana ma anche di ottimismo umano. Vide «con piacere e con speranza progredire l’idea della Pace». La Santa Sede attribuiva grande importanza agli sviluppi del diritto internazionale e «la storia del tempo nostro, sia detto a sua gloria, è tutta cosparsa dai fiori d’una splendida documentazione in favore della Pace». Il Papa era però convinto che i più alti responsabili della vita delle nazioni non avessero ancora ben compreso una verità fondamentale: il processo di globalizzazione stava rendendo sempre più interdipendenti i destini delle diverse aree del mondo: «Oggi, lo sviluppo dei rapporti di forze e di interessi ha l’effetto che il bene o il male di questa parte della comunità internazionale non può essere considerato come il danno o il bene di quest’altra parte; e il mondo è fortunatamente quasi obbligato a cercare insieme il vantaggio comune, se vuole evitare il danno comune o persino la catastrofe comune».
Un mondo che stava diventando sempre più connesso, si direbbe con parole di oggi, rendeva ancor più cruciale il compito fondamentale della diplomazia: fare la pace. E Paolo VI si felicitava con i diplomatici che si impegnavano per la pace, incoraggiando questi «artigiani della pace» – un’espressione ripresa da papa Francesco a proposito del cardinal Agostino Casaroli e di soggetti ecclesiali impegnati per la pace – a non perdere il loro coraggio e a moltiplicare i loro sforzi.
A parlare in termini sempre più autorevoli dei grandi problemi della convivenza umana era un Papa che sentiva la Santa Sede ampiamente riconosciuta e accettata come membro della Comunità internazionale. Dopo l’Anno Santo, invitò i diplomatici a riconoscere la “realtà” di una Chiesa che, a dieci anni dal Concilio, era davvero la «Chiesa di tutti, anche di coloro che non ne fanno parte, ma che possono trovare in essa la parola dell’amicizia, della fraternità, della pace». Espresse con ancora più forza la convinzione che un intenso impegno diplomatico della Santa Sede non fosse in contraddizione con la missione evangelizzatrice della Chiesa e ancor meno che ostacolasse tale sua fondamentale missione. Senza la pretesa di indicare soluzioni politiche o tecniche, il Papa esortò «i governi ad esplorare gli orientamenti innovativi che la dottrina cristiana dell’unità della famiglia umana poteva portare a tutti questi dibattiti». Papa Montini considerò la Conferenza di Helsinki un grande successo, non solo per la partecipazione ad essa della Santa Sede, ma anche per il «patrimonio ideale comune ai popoli d’Europa « che l’avevano ispirata [...].
Negli anni Settanta Paolo VI delineò un ulteriore ampliamento della missione internazionale della Santa Sede verso un più vasto interventismo umanitario, sempre in collaborazione con gli Stati nazionali e con le organizzazioni internazionali. Nel 1973 affermò che «il Vangelo ci impedisce di essere indifferenti quando sono coinvolti il bene dell’uomo, la sua salute fisica, lo sviluppo del suo spirito, i suoi diritti fondamentali, la sua vocazione spirituale». All’inizio del 1975 sottolineò l’urgenza di una diplomazia proiettata in avanti, per «trattare efficacemente i problemi sempre nuovi e sempre più complessi che le si pongono, come quelli della popolazione, della fame, dell’ecologia».
Per Paolo VI la liberazione evangelica non si esauriva nella liberazione politica e sulla violenza manifestò chiaramente la sua critica. Ma, al tempo stesso, la vera pace, secondo la misura del Vangelo, gli appariva incompatibile con le condizioni di miseria, sofferenza e ingiustizia nelle quali vivevano grandi masse di uomini e donne in molti paesi del mondo. È impossibile accettare, affermò nel 1974, che «nell’evangelizzazione si possa o si debba trascurare l’importanza dei problemi, oggi così dibattuti, che riguardano la giustizia, la liberazione, lo sviluppo e la pace nel mondo […]».
Un anno dopo, nell’Evangelii nuntiandi sottolineò che l’evangelizzazione non sarebbe stata completa se non avesse tenuto conto «del reciproco appello, che si fanno continuamente il Vangelo e la vita concreta, personale e sociale, dell’uomo. Per questo l’evangelizzazione comporta un messaggio esplicito [anche] sulla vita internazionale, la pace, la giustizia, lo sviluppo; un messaggio, particolarmente vigoroso nei nostri giorni, sulla liberazione». «Tra evangelizzazione e promozione umana – sviluppo, liberazione – ci sono infatti dei legami profondi […]. Legami di ordine teologico, poiché non si può dissociare il piano della creazione da quello della Redenzione […]. Legami dell’ordine eminentemente evangelico […] quale è quello della carità: come infatti proclamare il comandamento nuovo senza promuovere nella giustizia e nella pace la vera, l’autentica crescita dell’uomo?».
All’ampliamento dei campi verso cui la Santa Sede rivolgeva la sua attenzione corrispose anche quello degli interlocutori: non solo gli Stati e le organizzazioni internazionali, ma direttamente gli uomini e i popoli, coinvolti in un grande appello contro l’indifferenza, specialmente verso i più lontani [...]. Il Paolo VI che, negli ultimi anni, parlava di pace era decisamente un papa evangelizzatore, proteso a portare a tutti la «Buona Novella della fede cristiana», che era anche una «buona notizia di pace», in 'un mondo in preda alla violenza […] che prepara, se non stiamo attenti, nuove e più formidabili esplosioni» [...].
L’attualità dell’insegnamento di Paolo VI appare oggi mostrata tra l’altro dai numerosi riferimenti di papa Francesco a questo suo predecessore. Nella Evangelii gaudium sono molti i riferimenti alla Evangelii nuntiandi e ad altri testi montiniani. La sintonia più profonda emerge soprattutto nel legame tra evangelizzazione e pace. Come Paolo VI, papa Francesco è convinto che il Vangelo parli a ogni uomo e a tutti gli uomini e che «l’annuncio di pace non è quello di una pace negoziata, ma la convinzione che l’unità dello Spirito armonizza tutte le diversità. Supera qualsiasi conflitto in una nuova, promettente sintesi».