sabato 1 giugno 2013
COMMENTA E CONDIVIDI
«Mia nonna e la sua famiglia riuscirono a scappare in Svizzera grazie ai documenti che l’eroico Giovanni Palatucci fornì loro... Mi chiedo perchè certi storici debbano sempre provare a cambiare la realtà dei fatti». Su Internet scatta l’indignazione di figli e nipoti per il tentativo – a opera del circolo Primo Levi Center di New York, rimbalzato in Italia in una corrispondenza di Corriere.it  – di ridimensionare l’opera del commissario dell’ufficio stranieri di Fiume nel salvataggio degli ebrei. Finché in vita, hanno parlato i suoi collaboratori e gli ebrei aiutati; che arrivarono ad affermare con Rozsi Neumann che Palatucci «andò oltre il comandamento cristiano, amando il prossimo più di sé stesso». Nel 1953 una cinquantina fra i salvati invitarono in Israele lo zio vescovo Giuseppe Maria Palatucci e all’eroico poliziotto fu intitolata una strada e piantati 36 alberi: quanti gli anni della sua vita stroncata. Ora gli eredi raccolgono il testimone della memoria. Potenza della Rete. A Emanuele Boccia gli echi della polemica revisionista arrivano fino a Manchester, dove si trova per studio; su Facebook porta alla luce la storia della nonna paterna Gisella, ebrea di Fiume, fuggita in Svizzera coi genitori Osvaldo e Fanny Pancer grazie ai documenti falsi forniti da Palatucci: «È stato un eroe, in famiglia si sa, non capisco le ragioni di certi articoli», dice. Una via di fuga sulla quale porta nuova luce un recente articolo dell’<+corsivo>Osservatore Romano<+tondo> di Giovanni Preziosi, relativo al salvataggio nel novembre 1944 di due ebrei fiumani, Americo Ermolli ed Ernesto Laufner. Una lettera appena rinvenuta dell’allora funzionario della questura di Milano, Carmelo Scarpa, parla del ruolo svolto da un sacerdote, padre Enrico Zucca, nel condurre alla frontiera «senza nessun esborso», i due provenienti da Fiume «raccomandati» – manco a dirlo – da Palatucci. Lo storico Matteo Luigi Napolitano ha visionato il fascicolo dello Yad Vashem che gli valse la proclamazione, nel 1990, di «Giusto fra le nazioni»: «Si sbaglia l’ex direttore dell’ufficio Giusti Mordechai Paldiel a dire che Palatucci è "Giusto", che pure basterebbe, per aver salvato una sola persona. La stessa Elena Ashkenasy testimonia che s’interessò per varie altre persone di famiglia. E poi Paldiel è smentito da una sua lettera del 10 luglio 1995, quando asserisce che è stato dichiarato Giusto perché "avvertì gli ebrei del fatto di essere ricercati, o li aiutò a salpare per Bari, dietro le linee alleate". Sicuramente circa 40 ebrei fiumani trovarono rifugio nella diocesi di Campagna, guidata dallo zio». Cinquemila ebrei salvati, però si dice, sarebbero troppi per una regione che ne ospitava meno della metà. Ma la vera bufala è proprio questa. Si dimentica, o di finge di farlo, che attraverso Fiume – come spiega lo storico Francesco Barra, grande conoscitore del microcosmo fiumano del tempo – «a migliaia, forse decine di migliaia, fuggivano gli ebrei balcanici, croati, serbi, slovacchi, ungheresi, greci, in diverse ondate dall’autunno del 1941, per sfuggire all’avanzata tedesca e alle cruente persecuzioni del regime degli ustascia». Giuseppe Veneroso, ex finanziere di recente scomparso a Prato, raccontava che con altri agenti avevano preso l’impegno con Palatucci, con cui erano in continuo contatto, «e in quasi due anni ne abbiamo lasciati passare circa 5 mila», assicurava. Molti salpavano subito senza lasciare traccia. Ma sottrarre a un periglioso destino chi arrivava a Fiume privo di documenti toccava ancora una volta a Palatucci. Emblematica la vicenda dei coniugi Conforty, beneficiari dell’opera di due «Giusti», il colonnello Antonio Bertone che li condusse oltre frontiera e Palatucci, cui poi furono affidati. «I miei furono ospitati in gran segreto per una notte al quarto piano della questura, perché il commissario avesse tempo di produrre documenti falsi, grazie ai quali sono restati per qualche tempo in città, dove sono nata», racconta Renata Conforty, che oggi vive a Roma con la famiglia. «Il canale di Fiume era gestito dalla Seconda Armata, che aveva il comando a Susak, sobborgo di Fiume, e dal ministero degli Esteri – ricostruisce Barra –; settori del regime che si opposero per lungo tempo all’applicazione delle leggi razziali. Gli ebrei affluivano nei territori occupati del litorale dalmata e da lì nei modi più diversi giungevano a Fiume, dove decisivo fu il ruolo di Palatucci». «Migliaia, forse decine di migliaia» trovarono così una via di fuga. Grazie a Palatucci? Anche. «Soprattutto», sono in tanti a sostenere. Lo conferma la testimonianza inedita di Rocco Buttiglione: «Mio padre, giovane vicecommissario a Zagabria (poi sarebbe diventato questore e vicecapo della Polizia), mi raccontò quel che fra tanti ufficiali dell’esercito e funzionari di polizia era una parola d’ordine. E cioè che bastava far arrivare a Fiume questi perseguitati e lì se ne occupava Palatucci». Prima dell’armistizio i suoi superiori, il prefetto Testa e il questore Genovese, fascisti zelanti, abbandonarono Fiume, e a Palatucci toccò la più scomoda delle promozioni a questore reggente, con i tedeschi che esautorarono di fatto le istituzioni italiane dando vita al Litorale Adriatico. Ma lui non si arrese, nonostante l’amico console elvetico gli consigliasse la stessa via di fuga usata per tanti, verso la Svizzera. Mosso anche da spirito patriottico e dall’intento di salvare centinaia di agenti arruolati in questura per sfuggire ai rastrellamenti tedeschi, Palatucci restò al suo posto, su richiesta del Cln, all’indomani del crollo del regime il 25 luglio, come attesta il segretario locale del Partito popolare sturziano Antonio Luksich Jamini, assumendo il nome in codice di «dottor Danieli». Alla fine a incastrarlo fu un documento inglese da far pervenire agli Alleati per l’Autonomia di Fiume. Prova, secondo i detrattori, che non fu l’opera di salvataggio a metterlo nei guai. Opera che certo, però, l’aveva posto già sotto attenzione. Ma scorrendo i nuovi documenti usati "contro", se ne scopre uno che non è difficile ribaltare a suo favore: quando, scrivendo al comando tedesco poche settimane prima dell’arresto, per controbattere alla costante denigrazione della questura da parte della milizia fascista, si spinge a dire: «In materia di dirittura morale io rendo conto alla mia coscienza, che è il più severo dei giudici immaginabili».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: