L'artista Moni Ovadia
«La memoria serve per il presente e il futuro. Riflettete: se vi cancellassero la memoria e vi domandassero chi siete… non sareste in grado di rispondere. La memoria è un progetto per edificare la società che vogliamo, altrimenti dobbiamo subire la società che altri vogliono per noi. Chi è padrone della storia o della memoria è padrone del mondo». È perentorio Moni Ovadia sull’importanza, necessità e attualità della “giornata della memoria”, ricorrenza ormai più che ventennale per commemorare le vittime dell’Olocausto e tradizionalmente fissata il 27 gennaio perché in quel giorno del 1945 le truppe dell’Armata Rossa liberarono il lager di Auschwitz scoperchiando così gli orrori della Shoah. «Ad Auschwitz, e non solo lì – ci tiene subito a precisare il narratore, attore, regista nato in Bulgaria da una famiglia ebraico-sefardita – è stato annientato l’essere umano. È doveroso ribadire e ricordare: sono morti 6 milioni di ebrei, 500mila rom e sinti, 3 milioni di slavi. Menomati, poveri sbandati, omosessuali, oppositori, che fossero anarchici, socialisti, cristiani, cattolici, comunisti, insomma tutti quelli che avevano detto di no, sono stati sterminati. È stato cancellato l’uomo perché i nazisti negavano l’uomo che in quanto tale è un crogiuolo di diversità e difformità dalle quali scaturisce la sua ricchezza, unicità e sacralità divina». E proprio con la spiritualità Moni Ovadia ha sempre innescato da più di trent’anni una proficua e creativa dialettica producendo innumerevoli e notevoli frutti artistici, dal vertiginoso e spiazzante Dio ride allo storico Oylem Goylem che lo consacrò come “cantore yiddish”, dal rapsodico Registro dei peccati allo sconvolgente Dybbuk. In questi giorni non si smentisce e continua a dialogare col trascendente provando al Teatro Comunale di Ferrara, di cui è anche di recente direttore artistico, un recital in vista della tanto agognata riapertura dei teatri: Paradiso con Dante e con Beatrice, un viaggio che Ovadia percorre ispirandosi all’innovativa analisi del filologo Federico Sanguineti per veicolare, insieme con la dotta e talentuosa Sara Alzetta che dà voce alla guida femminile del sommo poeta e all’eclettica e rinomata musicista Giovanna Famulari che dal vivo raccorda, amplifica o accompagna i versi danteschi col violoncello, le emozioni dell’ineffabile bellezza divina.
È proprio sulla natura di quell’Amor che move il sole e l’altre stelle che, secondo Moni Ovadia, bisogna riflettere per trovare il deterrente agli abomini perpetrati con la Shoah e reiterati fino ad oggi: «È illuminante la lettura del versetto levitico 18-19, “Amerai il prossimo tuo come te stesso”, proposta dal filosofo di origini ebraico-lituane Emmanuel Lévinas: l’ordine delle parole nella Torah non è mai casuale, l’amore per il prossimo è prioritario, tu acquisti identità di essere umano solo allorquando cogli l’altro nella piena dignità della sua alterità perché il motore della creazione è proprio questo. Cosa fa il Santo Benedetto? Crea l’altro da sé. Quindi se non riconosci l’altro perverti il principio stesso della creazione. Amore significa riconoscere l’altro che non viene come piace a te, ma nella sua “tuità” e in quanto tale va accolto facendosi “stranieri”. Questa accoglienza è il fondamento di un’etica di giustizia e di pace. Lévinas è talmente radicale che arriva persino ad affermare: “è l’io l’assassino”». E a proposito dell’amore divino come risponde Moni Ovadia alle teologie dell’Olocausto sull’assenza e il silenzio di Dio in occasione del genocidio degli ebrei? «Faccio mie le parole di un altro filosofo superstite della Shoah, Elie Wiesel, che risuonano come un tarlo nella mia testa. A chi gli chiese dov’era Dio durante lo sterminio nazista lui rispose: “come sarebbe a dire dov’era Dio? Dio si faceva massacrare con la sua gente” ».
C’è, sempre a riguardo degli interrogativi drammatici che l’uomo rivolge a Dio in occasioni di tragedie che feriscono l’umanità e minano il senso della vita, un testo, portato in scena da Ovadia nel 2001, intitolato Yossl Rakover si rivolge a Dio di Zvi Kolitz; uno sconvolgente testamento scritto da un combattente del ghetto di Varsavia mentre il cerchio della morte si stringeva intorno a lui e celato in una piccola bottiglia tra cumuli di pietre carbonizzate e ossa umane. Questa sorta di novello Giobbe chiama direttamente in causa il Signore di fronte al trionfo dell’orrore e, quasi empiamente sfidandolo, proclama il suo immutato amore per Lui, diagnosticando al contempo in modo lucido e spietato l’irreversibilità del male che si annida nell’animo umano. Siamo quindi destinati a veder reiterate queste mostruosità in un modo o nell’altro? A che serve allora far memoria? Anche in questo caso sono le Scritture a fornire risposte secondo Ovadia: «L’uomo credo sia un progetto aperto, ha dentro di sé energie e spinte di vario genere, noi facciamo memoria affinché l’essere umano esprima pulsioni vitali e non mortifere. Il quinto comandamento non dice “non uccidere”, bensì “non ucciderai”. Perché al futuro? Perché devi costruirti in modo da sviluppare una naturale ripulsa verso la violenza. I tempi e i modi possono essere progressivi e dilatati perché siamo poveri essere umani con tutti i nostri limiti, ma la consapevolezza deve essere radicale e non c’è una via d’uscita moderata: “Chi salva una vita salva il mondo intero”, recita la famosa frase talmudica».
Un’altra tremenda testimonianza che documenta l’indicibile crudeltà subita e rimanda alle responsabilità storiche e morali dell’uomo è Il canto del popolo ebraico massacrato di Yitzhak Katzenelson, il manoscritto del poeta ebreo polacco ritrovato dopo la sua morte nelle camere a gas di Auschwitz. Anche questa è stata un’indelebile esperienza artistica vissuta dal-l’artista ebreo: «Ricordo quando lo usai per il mio Dibbuk, lo feci leggere ai miei musicisti, uscirono da quella lettura devastati perché è come trovarsi al cospetto dell’assoluto di fronte al quale la parola si sospende. Ma c’è un altro autore, Vasilij Grossman, ebreo sovietico testimone della Shoah e dei gulag staliniani, che ha scritto Vita e destino, un’opera in grado di determinare una crisi che non ha eguali. Fa capire che noi o assumiamo una responsabilità totale, senza cedimenti nei confronti del valore e del senso della vita umana, o rischiamo di vedere cose ben peggiori di quelle che ci sono già state».
A pochi giorni dunque dalla “giornata della memoria” come evitare qualunque deriva celebrativa o retorica? Non nutre dubbi Moni Ovadia: «C’è un solo modo: legarla agli orrori a cui assistiamo oggi. Bisogna dichiarare apertamente che ricordiamo il passato perché dobbiamo salvare l’essere umano nella sua inviolabile integrità nel presente, perché se tu accetti oggi che muoiano bambini per malattie curabili, se tolleri che uomini, che scappano da guerre o da fame, muoiano come topi nel mare, allora è inutile che vai a fare il pellegrinaggio ad Auschwitz perché diventa il pellegrinaggio dell’ipocrisia».