Se c’è un materiale che gronda sangue, lo sappiamo tutti, questo è l’oro. Altro che «metallo nobile» e «puro»... Solo i secoli sanno quanto di morti e di lacrime, che razza di passioni e delitti e nefandezze abbia saputo suscitare quest’elemento, ben oltre il suo pur alto valore venale e il peso specifico che gli è proprio. Eppure noi uomini con l’oro abbiamo sempre fatto, e continuiamo a fabbricare, gli oggetti più sacri: il calice della messa e gli anelli del matrimonio, i premi sportivi come le statue dei santi (o degli dei), le medaglie al valore e le catenine da mettere al collo. E dunque? L’oro è incorruttibile e prezioso, certo; ma è anche il metallo cui più nella storia si è idolatricamente sacrificato in sangue e vizi. Esso è dunque «sacer» sì, ma nel doppio significato originario del vocabolo in latino: santo e maledetto, cioè. Proprio per chiarire questa ambiguità, e almeno per quanto riguarda l’oro adoperato per gli usi religiosi, qualcuno ha pensato di «ripulirlo» per renderlo cioè davvero «puro»: non tanto nel senso della qualità del minerale, ma piuttosto per la sua provenienza. E ha inventato l’«oro etico». Di che si tratta? Lo spiega il
Goldlake Group di Gubbio (Pg), che in Honduras controlla appunto alcuni giacimenti auriferi alluvionali in cui non si fa uso di cianuro o mercurio, additivi di solito impiegati nelle lavorazioni e altamente inquinanti. Grazie a un «processo di separazione per caduta di inerti», in sostanza, si riescono a separare la polvere d’oro o le pepite dagli altri minerali, impiegando per di più acqua continuamente riciclata.Un processo industriale indubbiamente innovativo ed ecologicamente meritorio, cui gli imprenditori cementieri umbri Giuseppe e Franco Colaiacovo (fondatori nel 2003 del
Goldlake) aggiungono poi alcuni progetti di riforestazione e sviluppo destinati alle popolazioni centramericane, sul modello ormai collaudato delle aziende che partecipano al circuito del commercio equo e solidale. Ecologia, diritti umani, promozione sociale: quali ingredienti più consoni, dunque, a un oro «etico & sostenibile» adatto anche a fabbricare oggetti sacri? Infatti sono proprio la liturgia e l’oggettistica religiosa (oltre all’alta gioielleria con retrogusto di sensi di colpa umanitari: Cartier ha appena firmato un accordo col gruppo eugubino) due dei settori verso i quali il particolare metallo viene incanalato. Sono passati i tempi in cui il primo oro strappato agli indios – ovviamente pagani – dell’America Latina serviva per decorare la basilica di Santa Maria Maggiore a Roma; oggi la sensibilità moderna e anche una certa dose di
politically correct impongono crescenti cautele nelle scelte anche apparentemente più «neutre», come quelle del vasellame per il culto o degli arredi sacri. L’oro «etico» – sostiene la Goldlake – costa un po’ di più, però «può essere alla base di oggetti di natura cultuale o comunque in rapporto con momenti di vita sacramentale». Ecco perché la stessa società mineraria ha deciso di sponsorizzare una monografia che si occupa de «L’oro nel culto» ed è stampata come numero della
Rivista liturgica, edita dall’Istituto Santa Giustina e dalle Edizioni Messaggero di Padova. «L’oro "etico" – assicura l’autorevole periodico – permette di diffondere una nuova cultura del metallo prezioso... Mentre chiama in causa la coscienza della persona e delle istituzioni, rinvia a quel rispetto della natura di cui l’oro è una delle più eloquenti espressioni. In un simile contesto, l’uso "religioso" dell’oro può essere un richiamo per sensibilizzare all’acquisto di oggetti plasmati in oro "etico" (si pensi a tutti i regali in oro che si fanno in occasione di celebrazione di sacramenti, a cominciare dagli anelli nuziali...)». Marketing o segno dei tempi? Dopo il Concilio si tuonava contro le «ricchezze» del Vaticano e qualche vescovo vendeva la croce pettorale per indossarne una più sobria; oggi invece si accetta – forse più realisticamente – di fabbricarle in materia più «sostenibile». Ci si può chiedere se è la via giusta. Di certo sappiamo che la Bibbia con il metallo nobile non fa tanto la schizzinosa: comincia infatti a citarlo fin dal secondo capitolo della Genesi (dove descrive uno dei fiumi che circondano l’Eden e trasportano «oro fine») e continua per 316 volte – in mezzo ci stanno il Tempio di Salomone laminato di metallo giallo, l’Arca dell’Alleanza rivestita dello stesso materiale e il dono portato a Betlemme da un re mago –fino al penultimo capitolo dell’Apocalisse, in cui la piazza della Gerusalemme celeste è definita «di oro puro». Ma c’è pure il vitello d’oro... Appunto: è proprio lui a dimostrare che la quintessenza dell’idolatria, in realtà, non sta tanto nell’ostentazione di ricchezza o nello spreco di denari, bensì – a parte la scelta di un animale come oggetto d’adorazione – nella profanazione di un elemento raro e fin dagli albori delle culture mondiali riservato soltanto alla regalità; umana o celeste che sia. L’oro è divino – ma anche diabolico, si capisce. «L’oro è la divinità stessa», sostenevano gli antichi (o «la divinità in sé stessa?»). Non per nulla tutte le religioni tranne l’islam – spiega l’editoriale della rivista – «trovano nel segno dell’oro numerosi motivi per esprimere il proprio rapporto con il soprannaturale». Attenzione: il «segno» non allude necessariamente al valore economico o monetario (anche nella cultura dell’antico Israele l’oro, pur importato dalla lontana Arabia per coniare monete, non rivestiva un interesse particolarmente vitale). Ovvero: le fedi adottano l’oro, nel culto come nel simbolismo, non tanto perché è prezioso, costoso, indice di sfarzo e di potenza, ma per la sua capacità di rimandare a Dio. Il «cielo» delle icone orientali, così come gli sfondi dei mosaici absidali paleocristiani e le aureole giottesche, sfavillano d’oro perché nessun altro colore è capace di abbagliare la vista dei fedeli e richiamarli dunque all’infinito, al perfetto, all’eterno e all’incorruttibile. Che poi i compromessi siano invece pane quotidiano è ben dimostrato dai contatti non sempre cristallini tra la religione (cristianesimo incluso) e il più duttile dei metalli. In passato, la richiesta di purificazione è transitata spesso attraverso i movimenti pauperisti ricorrenti nella Chiesa. Però oggi ancora – secondo gli esperti della
Rivista liturgica – «emerge la sfida dell’educazione al linguaggio dell’oro, perché l’uso del metallo prezioso nel culto non sia visto come una fonte di inganno, ma come richiamo ad una realtà il cui prezzo va ben al di là e al di sopra del valore dell’oro stesso... In questo panorama si affaccia la peculiare importanza dell’oro "etico" o "responsabile"». Eh già: anche sugli altari, non è tutt’oro quello che luccica...