Silvio Orlando in scena in “La vita davanti a sé” al Teatro Franco Parenti di Milano
«Ma l’impresa eccezionale, dammi retta, è essere normale», viene da canticchiare Lucio Dalla osservando la maschera attoriale, autentica, e ascoltando la voce musicale di un puro e riflessivo Silvio Orlando. Una stagione meravigliosa quella che sta vivendo, in teatro (con La vita davanti a sé) e al cinema (David di Donatello, migliore interpretazione per il film Ariaferma) il 65enne attore napoletano che sulle sue origini partenopee precisa subito: «Ho avuto due fortune nella vita: quella di nascere a Napoli e l’altra di essermene andato da Napoli a 18 anni. Oggi ci torno ogni tanto, vado a trovare mio fratello, ma non è una città che puoi vivere a mezzo servizio». Anche perché Silvio Orlando, da sempre, è al completo servizio dello spettacolo.
Inizi televisivi fine anni ’80 nel “prezelig” Zanzibar (era il tranviere Tagliuti, tifoso sfegatato di Maradona): l’allegra banda comica, in parte poi travasata nei Comedians di Gabriele Salvatore, «il primo che mi ha dato la conferma che il mio talento fosse esportabile». Un attore che cambia continuamente registro sul grande schermo e anche sul palcoscenico dove ammalia, monologante, con la storia di Momò, il protagonista della pièce tratta dall’omonimo romanzo di Romain Gary La vita davanti a sé. La vita di Momò, un bimbo arabo che vive a Belleville nella pensione di Madame Rosa, anziana ex prostituta ebrea che si prende cura di ragazzi orfani appartenenti a varie culture e religioni. «È uno spettacolo nato per riposarmi, da solo, senza attori in scena, un focherello acceso durante il buio della pandemia e che invece è diventato incendiario. Siamo vicini alle 200 repliche», dice con orgoglio Orlando.
Fino al 21 settembre è di nuovo in scena al Teatro Franco Parenti di Milano, con quest’opera superba di Gary che parla di inclusione e dell’eterno confronto madre e figlio.
Infatti ero partito dall’aspetto socio-politico dell’inclusione, che i francesi hanno affrontato trent’anni prima di noi con le banlieue. Poi ho virato sul rapporto mammafiglio. Anch’io come Momò sono rimasto orfano. Mia madre morì che avevo 9 anni e mi ricordo il teatrino di tutte quelle figure che tentavano di colmare quel vuoto, provando a sostituirsi. Ma come si fa a sostituire una mamma?
Più facile risolvere il problema dall’inclusione? A che punto siamo in Italia?
Tu sei mai stato operato da un chirurgo nero? No? Io neppure... Eppure la nostra storia di migrazione in tutto il mondo dovrebbe rappresentare un modello. Anch’io sono arrivato a Milano con la valigia di cartone, ci sono nostri connazionali che hanno fatto lo stesso e poi hanno creato attività di altissimo livello, menti eccelse che hanno vinto premi Nobel. Il mondo di oggi non sta mai fermo, perciò o si accoglie o si viene accolti. E il problema sarà quando i migranti non verranno più da noi, perché non saremo più un Paese attrattivo...
Invece Silvio Orlando in questo momento storico “attrae” ancor di più pubblico e critica. È forse giunto all’apice della carriera?
In 30-40 anni di esposizione ho avuto i miei bei periodi di piombo, seguiti da quelli d’oro, di “sovraesposizione”, molto simili ad ora. Ma rispetto alla popolarità che mi era piovuta addosso negli anni ’90 penso che oggi so gestire meglio il momento, il rapporto con gli altri, e sento che sono diventato un essere umano migliore. E questo mi fa pensare all’evoluzione che conduce al «diventa te stesso », che poi – sorride – è l’unica cosa che conosco della filosofia di Heidegger.
Il viaggio per arrivare al «diventare te stesso» è iniziato qui a Milano...
Periodo bello, pochi soldi tante idee e altrettante speranze. Ho seminato nelle cantine milanesi: invisibilità totale prima di entrare in quella banda di lupi, assolutamente reale, che si ritrova nel film Kamikazen - Ultima notte a Milano di Salvatores. Eravamo tutti affamati di successo e lo inseguivamo con la lingua di fuori, ma stando bene attenti a non smarrire la nostra autenticità. C’erano attori già avviati, tipo Paolo Rossi, quelli più solisti, ma eravamo tutti abbastanza amici. Quanti si sono persi? Beh è un elenco zeppo di nomi: il nostro mestiere è crudele, difficile da capire, per questo gli attori a un certo punto impazziscono – sorride – . Spesso hai successo per qualcosa di irrazionale, indipendente dal talento o dalla tecnica appresa, e non sai davvero come spiegarlo.
«Non so recitare, per questo sono un buon attore»: come spiega questo suo pensiero recente (dichiarazione rilasciata a “Repubblica”)?
Mia moglie giustamente mi consiglia di non dirle mai certe frasi, «perché poi vieni frainteso, ti penti e ti senti male...» – sorride – . La verità è che pedini un personaggio per anni e poi quando gli arrivi a un passo quello si volta e scopri che ha la faccia tua. E allora ti chiedi: ma come, tutta sta’ fatica per tornare a quello che sei? La tecnica serve all’inizio per avere un filo su cui fare l’acrobata, poi te la devi dimen-ticare, perché tutto quello che ti occorre ce l’hai già dentro. La vogliamo chiamare anima? Beh allora se vuoi che il pubblico la riconosca la devi fare emergere quell’anima...
L’anima dei suoi personaggi è legata spesso al rispetto per l’orgoglio e la dignità umana: vedi il prof. Vivaldi de La scuola, a Sandulli ne Il portaborse (entrambi diretto da Daniele Luchetti) o il regista Bonomo de Il caimano (di Nanni Moretti). Pensa che quei personaggi sono ancora fermi lì?
Magari fossimo rimasti lì... Non si conserva niente, tutto si modifica. Berlusconi che all’epoca vedevamo come un mostro, un attentato quotidiano alla democrazia, adesso ci appare quasi una figura rassicurante. Lui ha personalizzato la politica, ma in maniera scintillante, con ballerine, lustrini e paillettes... I “caimani” di oggi mi fanno più paura di Berlusconi, perché hanno generato un clima cupo, rabbioso, cattivo. L’unico sbocco del “turbocapitalismo” è stato l’individualismo che non porta mai da nessuna parte, perché non ci si salva mai da soli...
Entriamo al cinema con gli ultimi film che la vedono protagonista: Ariaferma, il gioiello di Leonardo Di Costanzo in cui per la prima volta ha recitato assieme a Toni Servillo.
Con Toni è stata la prima volta solo perché non ce l’hanno mai chiesto prima, e ancora non ce l’hanno richiesto. Intanto io e Servillo abbiamo scoperto che siamo complementari. Questa volta io ho fatto il detenuto, il boss cattivo e lui l’umano e misericordioso agente penitenziario... Fellini diceva che «l’attore è un clown, c’è quello Bianco e quello Augusto», uno costruisce l’altro distrugge, perciò per sopravvivere a questo mestiere devi cambiare di ruolo e metterti continuamente alla prova.
L’ultima prova con Nanni Moretti è Il sol dell’avvenire (uscirà nel 2023). Che cosa dobbiamo aspettarci?
Sono cinque film uno dentro l’altro e io sono in quello ambientato nell’invasione dell’Ungheria del ’58. No, non è la vecchia storia di Nanni del “pasticciere trozkista” – sorride – . La chiamata di Mo-retti, con il solito provino superato, sono quelle conferme che gratificano. Così come è gratificante essere tornato a lavorare con Paolo Virzì. E poi, sia Paolo che Nanni li ho trovati migliorati, è come se avessero fatto pace con il loro elemento femminile.
In Siccità di Virzì, quanto c’è della Roma di oggi?
Roma come Napoli quando fanno da sfondo è inevitabile che a poco a poco prendono il sopravvento, diventano le vere protagoniste del film. Il Tevere prosciugato per quello che rappresenta nella storia dell’umanità è una simbologia universale, inquietante. Prima si prendevano gli attici per salvarsi dall’alluvione, ora con la siccità l’attico ti serve a poco. Non ci si salva dalla sete che abbiamo tutti: il mondo si è inaridito e nessuno sa più cosa ci fa stare bene e qual è la maniera giusta per comunicare le nostre idee.
Ma il teatro sembra essere ancora un buon laboratorio di idee...
Il teatro è una variabile dipendente. Milano è diventata un’oasi felice dove questo laboratorio funziona, a Roma invece c’è aria di decadenza, chiudono o stanno chiudendo tante sale teatrali. In generale il teatro oggi avrebbe un’occasione storica che non so se il sistema – difensivo autoconservatore che lo regola – sta cogliendo. È l’unico posto dove vedi ancora la presenza umana, nel cinema ci sono duemila surrogati, a teatro invece c’è ancora il contatto fisico, carnale, con l’attore in scena che se diventa centrale può ancora incidere anche nel pensiero della gente.
Potere dello schermo, specie quello piccolo della tv che con la serie SkyTheYoung Pope di Paolo Sorrentino, lo ha visto indossare l’abito del cardinale Angelo Voiello.
Il cardinal Voiello è Sorrentino che si camuffa – sorride – , c’è sempre un pezzo di Paolo in ogni personaggio che crea. Io non sono un grande frequentatore di messe ma certo Voiello con tutti i suoi scheletri non è un personaggio edificante. Mentre c’è una chiesa che ha preso totalmente la scena e certe parole d’ordine che altrove sono state cancellate le senti dire solo da papa Francesco. Oggi chi parla più di povertà? Nessuno, lo fa solo il Papa e quella chiesa che ha ancora il coraggio di andare nei villaggi più poveri dell’Africa o i lebbrosari dell’India...
Sembrano parole di un uomo e di un attore maturo alla ricerca di una fede...
Ogni uomo alla fine rimane sempre quel bambino che ha paura del buio. Per illuminare la notte ci vuole quel messaggio finale de La vita davanti a sé: «Bisogna volere bene ». È una provocazione, contro questo mondo spregiudicato e scorretto, acido. Dire quella frase tutte le sere non è facile. Devi essere credibile. Per pronunciarla devi stare attento a non cadere nell’ipocrisia o nel bieco buonismo. E penso di riuscirci, perché non ho mai giocato a fare il disincantato, le ipocrisie e i buonismi non mi appartengono, anzi, vorrei tanto che sparissero.