Ma di cosa stiamo parlando? Spesso sono i modi di dire a rivelare, nella loro vaghezza, più di quanto nascondano. Mostrano di avere fiducia nella capacità del linguaggio comune di condurci in direzione della verità più di molti discorsi filosofici in senso stretto. Più di dieci anni fa, il 9 marzo del 2004, un grande pensatore come Raimon Panikkar e un importante filosofo com’è Emanuele Severino, si incontrano a Venezia. Discutono tra loro e il pubblico, non è evidente che giungano alla stessa conclusione, ma discutono. Oggi l’editore (Jaca Book, introduzione di Luigi Vero Tarca, a cura di Milena Carrara Pavan) titola il confronto di allora Parliamo della stessa realtà? Per un dialogo tra Oriente e Occidente, esplicitando i motivi di quella discussione: la realtà ultima. A dire il vero a Panikkar non è che importi molto di giustificare il dialogo, nel senso che lo dà così per scontato, necessario, inevitabile che ritornare sulle sue ragioni è argomento ozioso e inutile. Piuttosto è Severino a rendere conto dell’Occidente e della sua "follia", a distinguerne gli effetti, a cercare di intravedervi la fine o il compimento, insomma a preoccuparsi di molte, troppe, cose che avvengono nella "storia dell’Occidente" e nel pensiero che se ne dovrebbe avere.Per esempio, l’angoscia per il divenire altro di ogni cosa, l’instabilità radicale del mondo e degli essenti che intanto sono solo perché scompaiono. Ciò porta l’uomo occidentale a pensare un mondo nel quale verità definitive ed enti immutabili, non possono esserci per paura del limite che pongono alla sua volontà di potenza. Non è forse lo Zarathustra di Nietzsche a chiedersi cosa gli resterebbe da creare se esistessero gli dèi? Quindi, fuori gli dèi (e qui ci pensa il Cristianesimo); poi via lo stesso Dio (e qui ci pensa l’Illuminismo e la ragione dominante); se comunque la situazione rimane non proprio delle migliori, il colpo di grazia lo dà la Tecnica. Più che di un dominio (che Panikkar contesterà in poche folgoranti battute: «En passant, poi, è stato detto che oggi domina la tecnica. Non lo sapevo! […] A me non mi domina. […] Certamente sono stato obbligato a prendere il treno e poi il traghetto per venire qua, ma non mi sento dominato da questo») per Severino si tratta della forma stessa assunta dal pensiero greco. Essa è responsabile di quella caduta che agli uomini fuorviati appare come una crescita illimitata della propria potenza. E come tale inevitabile.Non solo, ma a questo movimento in folle dell’Occidente, collabora anche il cristianesimo e il suo cibo eucaristico: «Si mangia il Dio per impossessarsi della sua santità». È in questo modo che la fede eucaristica diventa il particolarissimo ed efficacissimo contributo del cristianesimo alla fede nella capacità umana di diventare altro e quindi al movimento incessante di perdita dell’essere a vantaggio del divenire. Così, fine della storia. Aspettiamo che il cadavere dell’Occidente passi sul fiume dell’essere che attende immobile l’estinguersi della follia (l’immagine paradossale è quasi un obbligo). Panikkar, teologo ma non per questo meno filosofo, all’incrocio di diverse tradizioni di pensiero, di cui non revoca la validità a vantaggio di nessuna, pur mantenendo intatte le prerogative delle differenze reciproche, replica con alcune righe di straordinaria chiarezza: «L’eucarestia […] non è vero che la si assume per diventare Dio. Io mangio pane perché il pane diventi ’me’, non perché io diventi il pane. Prendo l’eucarestia non per diventare Dio-altro, ma perché questo Dio-altro (che non è "altro") possa diventare "me", essere in me. Quindi, quando mangio il pane, quando bevo il vino, io non voglio diventare né pane né vino: voglio che il pane e il vino diventino me».Come si poteva dire meglio la distanza tra il presunto destino dell’Occidente e quello del Cristianesimo? Perché volerli identificare a ogni costo sotto il segno della Tecnica? Perché attribuire a uno gli effetti dell’altro e viceversa, in un gioco nel quale alla fine è l’inevitabilità di un processo (per altro portato di continuo a giudizio da un ostentato Parmenide) ad avere la meglio? Non solo, ma l’obiezione che Panikkar muove a Severino è radicale: «L’angoscia del divenire altro di cui si è parlato, e che caratterizza l’Occidente in modo evidente, non è la stessa cosa della non-angoscia del "divenire se stesso"». Qui, addirittura, Panikkar difende Nietzsche da se stesso: non è stato infatti il tedesco morto nella demenza a scrivere «come si diventa ciò che si è»? Altro che diventare altri-da-sé! Insomma, ma di cosa stiamo parlando? Ora, sarebbe abbastanza difficile e tutto sommato sbagliato, attribuire a questo confronto tra due grandi figure della riflessione filosofica le risposte definitive che ci si aspetta dalle loro grandi opere. Ma come giustamente non manca di segnalarci nell’introduzione Luigi Vero Tarca, alcuni punti decisivi sono stati toccati. E se entrambi difendono «la specificità di ciò che li differenzia», al pubblico dei lettori è data almeno la possibilità di intendere entrambe le posizioni in una chiarezza che non attinge mai alla banalizzazione.Sei anni dopo quel confronto Raimon Panikkar moriva in Catalogna dopo un’esperienza intellettuale tra le più intense e vivaci del secolo passato, partecipe di culture e di teologie le più diverse. La continuazione di quell’incontro, per quanto auspicata, non è più stata possibile, eppure riprenderla nella forma del volume e rilanciarne i significati è una variante contemplata dal dialogo e, in qualche modo, adempiere all’auspicio stesso. Il vero omaggio che il grande teologo ha offerto al filosofo, ma anche ai lettori che possono dissentire o aderire alle sue tesi, è condensata in questa frase, da leggere a mandare a memoria ogni volta che si discute: «La critica che fa Severino mi sembra molto giusta, anche se sbagliata!, ma molto giusta. Non sto facendo una battuta. Dico "giusta" perché dà ragione della sua critica profonda: va veramente alle radici, e la sua voce deve essere ascoltata». Si ascolta l’altro quando si va alla radice dell’altro ritrovando se stessi, diventando se stessi.