venerdì 16 agosto 2013
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Una ponderosa monografia pubblicata da Enzo Vinico Alliegro dell’Università "Federico II" di Napoli, Antropologia italiana. Storia e storiografia 1869-1975 (Seid, pagine 652, euro 55,00), consente di verificare come in Italia gli insegnamenti accademici legittimati da cattedre universitarie, da quella di antropologia fisica istituita nel lontano 1869 fino a quelle di tradizioni popolari, di etnologia e di antropologia culturale fino all’istituzione del raggruppamento socio-etno-antropologico nel 1975, abbiano avuto una lunga e interessante tradizione. In oltre un secolo, peraltro, la dinamica dei saperi e lo sviluppo delle ricerche interdisciplinari hanno contribuito a determinare e a delimitare un territorio di ricerca – peraltro aperto – nel quale hanno agito una pluralità di discipline reciprocamente convergenti “da lontano”, quali biologia, fisiologia, socio-antropologia, psicologia e psicanalisi, scienze geografiche, filologiche, linguistiche e glottologiche. Il lavoro dell’Alliegro è prezioso da più punti di vista: per esempio nelle lunghe, dense pagine che ricostruiscono le vicende del Manifesto della razza del 1938, a proposito del quale si fa lucida e coraggiosa giustizia di molti luoghi comuni e si traccia un quadro della situazione scientifico-culturale del tempo, ch’era molto meno uniforme, bigia e conformistica di quanto oggi non si trovi conveniente dire.Emerge da questo studio come in Italia la distinzione concettuale e funzionale in un’antropologia fisica e una culturale (caratterizzata da meno precisi contorni) non abbia nel complesso giovato allo sviluppo di una scienza antropologica più flessibile e attenta agli sviluppi di ricerche, che in molti altri Paesi – dagli Stati Uniti all’Unione Sovietica/Russia, alla Gran Bretagna, alla Francia, a Israele – hanno condotto negli ultimi decenni allo sviluppo di vere e proprie nuove discipline di sintesi, determinate dal collegamento tra saperi e metodi di tipo diverso e dallo sviluppo delle ricerche di équipe. Così i nuovi, differenti sotto-generi dell’antropologia culturale – la storica, la giuridica, la religiosa –, andando al di là di ormai consolidati ma anche invecchiati pregiudizi, hanno battuto in breccia il vecchio concetto di un’antropologia intesa come studio di società immobili, «non toccate dall’ala nera della storia».In questo senso è stata molto importante il contributo della scuola parigina nata attorno alla rivista “Annales”, la cosiddetta Nouvelle Histoire, nata dal fecondo incontro tra gli allievi di Émile Durkheim prima, quelli di Fernand Braudel e di Claude Lévi-Strauss dopo. Va detto che tale incontro era stato reso possibile anche dallo statuto delle scienze storiche e del loro insegnamento nel sistema pubblico francese che, fin dai tempi del geografo otto-novecentesco Paul Vidal de la Blache, privilegiava il rapporto tra le discipline a carattere storico e quelle a carattere geografico, mentre in Italia la cappa dell’idealismo neohegeliano – sostenuta da destra e da sinistra, da Croce e da Gentile non meno che dalla scuola gramsciana – impediva qualunque connessione delle scienze storiche con quelle diverse dalle filosofiche e condannava a una damnatio memoriae, per fortuna oggi volatilizzata, tutte le “logìe”, in una certa misura compresa la stessa filologia. Oggi la situazione è moto diversa, anche grazie al fatto che intanto sono cadute altre forme di damnatio memoriae, come quella a suo tempo formulate nei confronti della geopopolitica.Il nuovo clima d’incontro fra scienze storiche e scienze antropologiche fornisce utili strumenti anche alle discussioni relative alla diversità culturale e alle identità etno-nazionali, contribuendo ad esempio al rigetto dell’infausta teoria hungtintoniana dello “scontro tra civiltà” e ad aberrazioni pseudoscientifiche del genere, che purtroppo circolano ancora tra i media e inquinano la politica. Anche in questo senso sta dando buoni risultati la problematica relativa al concetto di Occidente e alla sua dinamica storica, che finisce con identificarsi con quello di modernità. Fin dalla stessa struttura lessicale della parola, il termine Occidente rimanda a una relatività che, per autodefinirsi, ha bisogno del suo complementare, l’Oriente. Altra dimensione ardua a definirsi, che dal Sei-Settecento ha dato origine a una disciplina, l’orientalistica, la quale studiava in genere le culture, le lingue e la storia dei popoli antichi e moderni qualificabili come orientali. E l’Oriente degli europei, per convenzione, cominciava presto: dai Balcani (per la penisola italica, già Venezia e Bari erano “porte d’Oriente”) e dal Levante, fino all’Estremo Oriente cinese e giapponese.Ma le discipline orientalistiche andavano oltre: e variamente si collegavano, si sovrapponevano e s’intrecciavano con una complessa costellazione di gusti, di curiosità, di atteggiamenti e di pregiudizi, a loro volta riuniti in qualcosa che potremmo definire una dimensione della cultura (e dello spirito?) occidentale, l’orientalismo, a sua volta variabile di un analogo a ampio atteggiamento di apertura paradossale al diverso, l’esotismo. È<+tondo> curioso, ma logico, che l’orientalismo producesse a sua volta – e ne fosse poi influenzato, in una specie di circolo è difficile dire se virtuoso o vizioso – un occidentalismo, che del resto era l’altra faccia della medesima medaglia: vale a dire in una auto-rappresentazione di se stessi e della propria cultura, non è detto davvero più aderente alla realtà del nostro Occidente di quanto non lo fosse nei confronti dell’Oriente. Per meglio orientarsi in quest’intreccio di questioni non va dimenticato d’altronde che la parola occidentalismo viene utilizzata in politica per indicare le tendenze a ritenere le società occidentali in qualche modo (culturale, politico, etico e così via) come superiori rispetto a quelle orientali. Tra le due accezioni dello stesso termine non si dovrebbe mai far confusione. A comprendere la genesi di questi problemi, e a evitare contaminazioni e confusioni di sorta, è molto utile il libro Oltre l’orientalismo e l’occidentalismo. La rappresentazione dell’altro nello spazio euro-mediterraneo, a cura di Roberto Gritti, Marco Bruno e Patrizia Laurano (Guerini 2009), dove studiosi di vario indirizzo ed esperienza contribuiscono a tracciare la difficile ma affascinante mappa della forse infausta – ma in fondo, chissà, anche necessaria – “mappa del diverso”, che individui e società finiscono sempre col tracciare come imperfetto eppur indispensabile sostegno alla loro autocoscienza. E ormai i tempi sono maturi affinché la storia della nascita e dello sviluppo di queste varie discipline divenga, a sua volta, oggetto di storia. Al riguardo va segnalato uno studio per molti versi esemplare: quello di della studiosa anglo-portoghese Filipa Lowndes Vicente, Altri orientalismi. L’India a Firenze 1860-1900 (Firenze University Press, pagine 369, euro 22,90). Non è certo casuale che la sensibilità storica che ha condotto allo studio di un lungo episodio di ricerca condotto a livello interdisciplinare nella seconda metà dell’Ottocento, l’era coloniale per eccellenza, sia maturata in una giovane studiosa dalle radici in due Paesi dal grande passato, per certi versi glorioso e per altri tragico; due Paesi non a caso trettamente legati dal loro destino di nazioni marinare e conquistatrici, Inghilterra e Portogallo. In un lungo soggiorno fiorentino, la Lowndes Vicente è entrata in contatto con una realtà mirabile, uno splendido deposito di tesori materiali e documentari: il Museo Antropologico situato nel bel Palazzo Nonfinito di via del Proconsolo, tanto obiettivamente importante quanto ignorato dai fiorentini e dai turisti. In quel museo visse e lavorò per molti anni, a cavallo fra Otto e Novecento, un autentico genio incompreso della nostra cultura, l’indianista, sancritista e comparativista Angelo De Gubernatis che, in contatto con un medico e storico di Goa residente a Bombay, José Gerson da Cunha, fece della città di Firenze uno dei principali ancorché semi-ignoti centri di ricerca orientalistica d’Europa. Giacimenti culturali e intellettuali d’inestimabile valore restano ancora sepolti e semi-inesplorati nelle nostre biblioteche, nei nostri archivi, dei nostri musei: a fronte di fiumi di denaro sperperato per strapagare consulenti di partito e mezzibusti televisivi, oppure per finanziare improbabili saghe e rievocazioni storiche, non si trovano mai gli spiccioli necessari a distribuire qualche borsa di studio e a organizzare qualche esposizione che farebbero riemergere questi tesori, creerebbero attorno a essi l’attenzione che meritano e farebbero magari perfino nascere, come i politici usano esprimersi, “nuovi posti di lavoro”. A Firenze, i dirigenti scientifici dei musei universitari fiorentini stanno da tempo pensando a una “Settimana indiano-fiorentina” destinata a far conoscere al largo pubblico, in una prospettiva di promozione anche divulgativa e turistica, questo ignoto pezzo di storia cittadina e occidentale: e hanno da tempo interpellato al riguardo le autorità governative, regionali, provinciali, i parlamentari toscani e gli organi mediatici della città, inviando progetti e chiedendo attenzione e supporto. Senza ricevere, com’è del resto da noi ovvio e come gli interessati si aspettavano, alcun cenno di riscontro.
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