Nella patria di Fellini c’è un pezzo di Oceania; ma c’è anche un pezzo di Africa e un altro di America precolombiana. Molti fra gli stessi riminesi lo ignorano, ma è così. E non si tratta di un sogno felliniano, bensì di un museo. Pensate che il presidente del Comitato scientifico si chiama, niente meno, Marc Augé, uno degli antropologi più noti al grande pubblico. Ma facciamo un passo indietro. Un signore veneto, forse di origini nobili, tale Delfino Dinz Rialto, nato nel 1920 a Padova e laureatosi a Napoli e a Firenze in studi afro-orientali e diplomatico-consolari, decise di trasferirsi in Zimbabwe, a Salisbury (oggi Harare). Era il 1948. Esplorò per un decennio l’Africa; non pago delle sue avventure, si trasferì poi in Melanesia, Polinesia e Nuova Guinea. Per chiunque altro sarebbe bastato, ma Dinz Rialto nel 1964 si spostò nelle terre del Nord-Est brasiliano dove gli assegnarono anche la cattedra di Storia delle culture precolombiane. In questa missione Rialto batte il Rio delle Amazzoni, visita le Ande, studia le civiltà Inca, le terre degli antichi maya, degli zapotechi e degli aztechi. Gli amici lo chiamano “nuovo Marco Polo”. Durante le sue missioni di studio, Dinz Rialto porta in Italia reperti e oggetti di quelle culture extraeuropee, e decide che la sua collezione deve formare un Museo. All’epoca, nonostante qualche precursore del linguaggio corretto, le chiamano ancora “Arti primitive” (nel 1957, i Rockfeller, avevano inaugurato a NewYork il Museum of Primitive Art), e Rialto si adegua. Perché a Rimini? Per caso, forse. Venne in contatto con l’amministrazione riminese alla fine degli anni 60 e l’idea prese concretezza presto, il 9 settembre 1972 il Museo venne inaugurato a Palazzo del Podestà. L’anno dopo, Henry Moore, passò da Rimini e lo visitò.
L’idea con cui si volle organizzare il museo fu quella, com’era tipico dell’epoca, di farne una sorta di specchio per mostrare come le cosiddette arti primitive avessero ispirato gli artisti del Novecento. Era la stessa idea del Museo di New York. Ancora legata a una visione occidentalista del rapporto con le culture, e quindi attentain primis a valorizzare gli apporti estetici di espressioni umane che non erano anzitutto “artistiche” come noi le definiamo, ma rituali, mitiche, sacrali, in definitiva religiose. Come spiegò oltre mezzo secolo fa Mircea Eliade, per questi popoli solo ciò che è sacro e soprannaturale è reale. Si dice che quello di Dinz Rialto sia stato il primo museo in Europa dedicato al “primitivismo”, con sezioni sulla magia e sulle tre aree culturali (Africa, Oceania, America precolombiana). Ma il vento stava cambiando, e gli stessi Rockfeller aggiustarono presto il tiro creando una sezione di nuova concezione al Metropolitan di New York. Dinz Rialto, però, non sembrava avere una mentalità coloniale, voleva che la nostra cultura aprisse gli occhi riconoscendo i propri debiti e liberandosi del pregiudizio fondato sul canone classico. Il passo successivo doveva essere quello di allargare il discorso sui materiali etnografici. Gli mancò il tempo per farlo. Nel 1975 il Museo era diventato del Comune, che nel 1977 cominciò a schedarne i materiali. Nel 1978-1979, le sezioni dell’Oceania e dell’America precolombiana vennero trasferite alla biblioteca Gambalunga, dove è conservato anche il Fondo dei disegni setteottocenteschi dell’Océanie, che saranno oggetto fra poco più di due mesi di una specifica mostra, curata da Rosita Copioli, che nell’intervista in questa pagina ne spiega l’impor- tanza. Morto Rialto a Rio de Janeiro nel 1979, il Comune acquisì dagli eredi altri 2.500 reperti (oggetti, archivio di documentazione, biblioteca del collezionista). Nel 1988 il museo venne riallestito a Castel Sismondo (Ala di Isotta) cambiandone la denominazione in Museo delle culture extraeuropee “Dinz Rialto”, dove nel 1992, Anno Colombiano, si tenne la mostra Terra America. Il Mondo Nuovo nelle collezioni emiliano-romagnole. Passa qualche anno e il museo cambia ancora nome e sede. Viene spostato fuori dal centro della città, a Covignano, sulle colline riminesi, nelle stanze di Villa Alvarado, e diventa “Museo degli Sguardi”, col sottotitolo “Raccolte etnografiche di Rimini”, incorporando anche materiali di altre collezioni. «Il Museo degli Sguardi vorrebbe avvicinare il proprio pubblico alla dimensione riflessiva della nostra relazione con l’arte degli altri» scrive nella guida Marc Augé. Peccato che il museo sia aperto tre giorni a settimana (per mancanza di fondi) e non sia facilissimo da trovare per chi viene da fuori. Si aggiunga che se si parla coi riminesi della bellezza di questo museo spesso si vede sul loro volto un certo smarrimento, non sanno che esiste né che cosa contiene. E corre voce che, per mancanza di fondi, vogliano spostarlo altrove o chiuderlo addirittura. Quest’anno a Rimini si vota, quello del museo Rialto dovrebbe essere un impegno della nuova amministrazione a ripristinarne la funzionalità e la centralità nella vita cittadina. Ma l’occasione per rilanciarne l’immagine potrebbe venire proprio dalla mostra sull’Océanie, magari trasferendo alla Gambalunga qualche reperto di arte oceanica, e gettando un ponte comunicativo col Museo di Covignano (attraverso visite guidate e dibattiti). Modesta proposta: perché non valutare la possibilità di ricollocare questa splendida collezione negli spazi di Castel Sismondo? È soltanto un sogno o può diventare realtà? Staremo a vedere.