Il romanticismo è stato un movimento spirituale, filosofico, poetico. Ma non è stato solo questo, bensì la scoperta di una costante dell’animo umano, un archetipo. Non si esaurisce nei suoi grandi poeti, non soffre delle precoci manifestazioni enfatiche generanti equivoci (romanticismo come sinonimo di sentimentalismo, svenevolezza, individualismo), ma si rivela una dimensione dell’essere. Dopo i romantici e grazie ai romantici noi scopriamo che erano romantici Omero, Dante e Shakespeare, vale a dire i tre più grandi di sempre, i tre che, con encomiabile ottusità e coerenza, gli illuministi misero al bando come primitivi, ingenui, rozzi e fanciulleschi. Romantico è una categoria dell’anima: indica avventura, racconto, ebbrezza lirica, estasi, vertigine: tutto concentrato nella poesia, nella parola che non si ritrova più puro mezzo di comunicazione, ma realtà conoscente e svelante. Romantica è la caverna di Platone, come la sua visione delle sirene che cantano quasi al pari delle muse: filosofia espressa in forma di mito, di fiaba. Romantica è l’opera di Giovanbattista Vico; l’avventura dei paleoantropologi che scendono nelle caverne per cercare, accanto alle ossa dei primi uomini e ai cavalli e bisonti dipinti, il senso ultimo e primo dell’esperienza umana nel mondo. Romantica è la competizione tra Stati Uniti e Unione Sovietica che cercano, negli anni Sessanta, di giungere per primi sulla luna, realizzando il sogno di Ariosto e di Leopardi. I grandi autori del romanticismo svelano una categoria antropologica che esisteva, fervida quanto non riconosciuta, dagli albori dell’umanità. Novalis, oltre che uno dei massimi poeti di sempre, è il pensatore mistico tedesco che più radicalmente fonda e realizza il romanticismo. E i suoi Inni alla notte - Canti spirituali (di cui esce il 18 aprile per Feltrinelli una versione con testo a fronte a cura di Susanna Mati, un lavoro serio e meritevole), costituiscono un prodigio della realtà romantica. «Mi ripiego verso la sacra notte, impronunciabile, colma di misteri (…) voglio precipitare in gocce di rugiada, mischiandomi con la cenere». Siamo all’inizio dell’opera, che si prefigura come un viaggio verso la notte, i misteri del buio, la culla del mondo, il regno in cui il sogno prende forma piena e la natura umana si libera. «Deve il mattino sempre ritornare? (…) Fu misurato alla luce il suo tempo; ma la signoria notturna è senza tempo e senza spazio. Eterna è la durata del sonno». La notte, come l’ombra del bosco, come il mare e il suo abisso: la zona buia ma traboccante di rivelazioni, il mistero che contiene i segreti incomprensibili, pur se smaglianti (e forse proprio perché smaglianti), alla luce del giorno. Non ci troviamo di fronte a un’impresa irrazionale ed evasiva: il viaggio di Novalis pone la poesia al centro del mondo, ma in onore al mondo. Che senza la poesia non sarebbe comprensibile e rappresentabile. Non una fuga dalla realtà, ma la ricerca della sua quintessenza e della sua continuazione. Senza poesia la realtà, nella sua misteriosa e travolgente creaturalità divina, non si perpetua, ma anzi impallidisce e si estingue. Lungi dall’essere un’alternativa a una realtà considerata effimera (il modello di Petrarca, che fa scuola per secoli), lontanissima dal ridursi a una ludica o sentimentale rappresentazione del mondo (l’archetipo fanciullesco di tutti i poeti mancati), la poesia è il cuore della realtà, e nello stesso tempo la chiave per aprirne il cuore. Immaginazione, estasi e magia sono tre delle parole chiave di Novalis: come per l’altro grande poeta romantico (il più grande di tutti), l’inglese S.T. Coleridge, l’autore della Ballata del vecchio marinaio, l’immaginazione è causa e condizione di conoscenza reale, non astratta, ma svelante e viva.
La creazione poetica assoluta è una fiaba: contiene il fuoco lirico, la storia e la visione teoretica, illuminante, «l’annullamento del principio di non contraddizione». Mario Luzi tradurrà perfettamente questa realtà scrivendo «conoscenza per ardore». Per Novalis, con una lucidità perentoria, lampante, felicemente «posseduta» quanto inconfutabile con argomentazioni logiche, il poeta deve esasperare la propria opera di conoscenza e creazione. Creare e fare coincidono e significano conoscere, il poeta deve essere cosciente della natura magica congenita al suo compito: «Il vero pensatore appare come un fare, ed è davvero tale», «il vero poeta è onnisciente, è un microcosmo», «il mago è poeta». Come Coleridge, Novalis, in un grande calderone (Goethe, Foscolo, Byron, Shelley, Keats, Holderlin) di poeti ispirati da una sorta di religioso fuoco dell’anima mundi, un’energia vulcanica e panteista, trova invece il culmine della poesia e del romanticismo nella figura e nella realtà di Cristo. Cristianesimo e poesia convergono. L’immaginazione santifica il presente incorporando il passato. La morte e la resurrezione, come la compresenza di uomo e Dio, sono il mito supremo della poesia.