La rivoluzione nei Paesi del Nordafrica sta davvero continuando? «Questa è una pretesa romantica – taglia corto Malika Zeghal, politologa dell’università di Harvard, tunisina d’origine –. E dimostra che le politiche rivoluzionarie devono essere riaffermate perché non sono più scontate». Zeghal lo afferma con chiarezza davanti agli studiosi del Comitato scientifico della «Fondazione Oasis», riuniti all’isola di San Servolo, a Venezia. Studiosa di movimenti islamisti e in particolare di processi istituzionali nel mondo musulmano, Zeghal ha pubblicato approfonditi saggi sul ruolo delle religioni in situazioni di conflitto. Dall’Egitto al Marocco. Di ritorno dalla Tunisia, la professoressa Zeghal racconta di aver sentito dire ripetutamente che «abbiamo fallito nella nostra rivoluzione».
È davvero così? La rivoluzione sta fallendo?«Questa è la diagnosi realistica del fatto che la democrazia fugace, come quella dei Paesi nordafricani, ha una fine. Se la rivoluzione si protrarrà, avverrà in nuove forme istituzionalizzate che fanno di questa democrazia, appunto fugace, una cosa del passato».
Tanto che sono ricomparse antiche divisioni. E non solo politiche.«Appunto. Subito dopo le rivoluzioni che hanno portato alla sostituzione dei capi del regime tunisino e egiziano con governi
ad interim, le istituzioni – e con esse i criteri che escludono taluni partecipanti – hanno costituito nuovamente il quadro per le attività politiche tunisine: le vecchie divisioni sono ricomparse e ne sono emerse di nuove. La società è sembrata di nuovo divisa tra i vecchi blocchi politici: distinzioni politiche, distinzioni regionali, reti famigliari e addirittura le affiliazioni tribali, che dall’indipendenza non erano più una categoria definita ma venivano usate come strumento di controllo politico, sono emerse come basi di chiare differenze».
In Tunisia, in particolare, l’opposizione tra «laicisti» e «islamisti» si è rinvigorita e, con essa, la questione della laicità e l’islam.«In effetti i laicisti hanno manifestato contro gli islamisti e i siti web e le pagine Facebook anti-islamiste si sono moltiplicate. Il principale partito islamista storico, al-Nahda, legalizzato per la prima volta nel marzo 2011, all’inizio della rivoluzione ha mantenuto un basso profilo per evitare di essere stigmatizzato. Col tempo tuttavia ha, seppur cautamente, iniziato a elaborare una piattaforma islamista moderata».
Inseguendo quali modelli?«I partiti democratico-cristiani europei e soprattutto l’Akp turco (Partito per la Giustizia e lo Sviluppo). La sua sede principale a Tunisi è un grande edificio moderno ed esso ha già cominciato ad aprire uffici in molte regioni della Tunisia. Tuttavia le sue idee restano vaghe: in questo periodo di transizione sta tentando di raccogliere consensi e rassicurare i segmenti laicisti della popolazione. Cerca spesso di dimostrare di essere a favore della "modernità" e del "progresso", due prerogative che si vede negate dai tunisini laicisti. Analogamente, è spesso accusato di nascondere le sue vere intenzioni».
È l’agenda degli islamisti la questione oggi più rilevante in Tunisia?«No. Per comprendere il futuro dei movimenti islamisti in Tunisia è cruciale comprendere la combinazione di due processi: la costruzione della categoria di laicité da parte degli intellettuali tunisini e delle
élites politiche, e la natura della relazione storica tra Stato tunisino e istituzioni religiose».
Quando sono cominciate le rivolte in Tunisia e Egitto, nell’inverno scorso, ci si è chiesti con ansia se i movimenti popolari fossero ispirati alle ideologie islamiste. Allora lo si è escluso. E oggi?«Le rivolte non hanno il marchio islamista: non vi sono stati slogan relativi a uno Stato islamico. Piuttosto i manifestanti hanno chiesto lavoro, giustizia, dignità e un cambio di regime. In entrambi i Paesi, i manifestanti hanno sollecitato l’istituzione di un’Assemblea costituente per cambiare radicalmente il sistema politico. Durante questo periodo rivoluzionario il futuro non è stato quindi rappresentato necessariamente come "islamico" o "secolare"».
La regolamentazione dell’islam ai tempi di Bourghiba era spesso definita «laica» dalle élites moderniste della Tunisia. Oggi qual è la situazione?«Il termine
laicité, che in Francia indica la separazione tra Stato e religione, usato per descrivere il modello tunisino di gestione della religione ha creato una profonda incomprensione della peculiarità del contesto tunisino. Gli islamisti sicuramente sperano un giorno di governare, come dimostrato dal loro interesse per la politica dei partiti; ma la loro sfiducia nello Stato prova anche che essi stanno prendendo le distanze dall’idea di "Stato islamico": un’espressione che – durante la rivoluzione – è stata pronunciata raramente da al-Nahda».
Adesso si aspettano con ansia le elezioni di ottobre in Tunisia.«Oggi quello che ci compete è l’organizzazione della democrazia, perché siamo in un periodo di transizione. Dovremo affrontare le elezioni del 23 ottobre. Dall’Assemblea costituente eletta ci aspettiamo una maggiore organizzazione, ci saranno più di 19 partiti politici rappresentati».