La voce di Yolande Mukagasana oggi è cristallina. Lo è nonostante questo sia forse il periodo dell’anno peggiore per quei ruandesi che, come lei, sopravvissero per miracolo al genocidio iniziato proprio nell’aprile di diciannove anni fa e che continuano a portare sulle spalle il peso e la responsabilità di conservarne la memoria. Yolande oggi è contenta perché - racconta - «questa notte è stata ritrovata una ragazzina che considero come una figlia, che mi era stata affidata e che invece era stata portata via da qualcuno che voleva inserirla nella rete dello sfruttamento sessuale». Yolande, che nel genocidio perse il marito e i tre figli, da allora è una testimone instancabile (tra i suoi libri in italiano
La morte non mi ha voluta del ’98 e
Le ferite del silenzio del 2008, Meridiana). Più volte candidata al Nobel per la pace, oggi consigliera alla Commissione nazionale ruandese per la lotta contro il genocidio, domani, giovedì 18 aprile, aprirà a Genova la quarta edizione di
La storia in piazza, in un incontro con Fernanda Contri su "Diritti civili e violenza sulle donne".
Yolande, le donne furono in qualche modo «più vittime» degli uomini durante il genocidio? Una vittima è semplicemente una vittima e non è possibile per me fare confronti. Non si possono trovare le parole per descrivere le sofferenze né di coloro che sono morti, e che prima di essere uccisi furono quasi sempre torturati, né di chi sopravvisse, e che fu testimone di quelle violenze indicibili. Gli orfani hanno assistito alla tortura sessuale delle loro madri e sorelle, all’umiliazione e all’uccisione dei loro padri. Come possiamo fare una scala del dolore? È però un fatto che donne, ragazze e bambine furono violentate in massa e che molte di quelle che sopravvissero contrassero l’Aids e oggi vivono malate e nella miseria. Ma c’è di più: sulle donne ci si è particolarmente accaniti per distruggere in loro l’umanità, perché la donna porta in sé l’umanità per nove mesi. Lo stupro è stato usato come un’arma di genocidio».
Una volta mi disse che gli stupratori sono trattati meglio delle loro vittime, perché in carcere ricevono le cure contro l’Hiv: dunque quale giustizia è stata fatta per le donne? «È vero che il Tribunale penale internazionale per il Ruanda curava gli stupratori che si trovavano in carcere in Tanzania, e le Ong si occupavano di quelli nelle prigioni ruandesi, mentre alle vittime non spettava alcun trattamento medico. La nostra first lady, Jeannette Kagame, ha preso a cuore il problema dell’Aids e oggi abbiamo molte campagne di prevenzione soprattutto nelle scuole, i giovani si sottopongono volontariamente al test e tutti hanno accesso alle cure. Il Ruanda, tuttavia, da solo non è in grado di prendersi cura adeguatamente dei sopravvissuti, anche se dedica a questa causa oltre il 5% del bilancio nazionale. I bisogni sono enormi: l’alloggio, l’istruzione degli orfani, le cure mediche... Da parte sua, la comunità internazionale si è rifiutata di risarcire i superstiti, sebbene abbia le sue responsabilità. I sopravvissuti, perciò, hanno cercato di organizzarsi in associazioni di sostegno reciproco».
Ci sono esempi di donne che si sono mobilitate per affrontare insieme le conseguenze della violenza e dell’odio? «Non solo le donne si sono unite per affrontare il post-genocidio, ma anche per partecipare alla vita politica del Paese ed entrare negli organismi decisionali. Il risultato è che oggi, in Ruanda, nulla può essere fatto senza le donne. Su 80 parlamentari, 52 sono donne. Abbiamo numerose ministre, così come imprenditrici, nel settore pubblico o privato. Quando si tocca il fondo, si hanno solo due opzioni: restarci o risalire, perché non si può scendere più in basso. Ma le ferite interiori sono ancora sanguinanti, e penso che lo resteranno a lungo».
Perché ha deciso di tornare a vivere in Ruanda? «Amo il mio Paese, e oggi è tutto ciò che ho. Inoltre, il materiale che mi serve per il mio lavoro è qui. E penso che i ruandesi abbiamo bisogno di me più degli stranieri, come io ho bisogno di loro, per ricostruirci a vicenda».
Qual è il suo ruolo alla Commissione nazionale per la lotta contro il genocidio?«Sono consigliera del segretario esecutivo in materia di tutela dei sopravvissuti, in tutte le aree: l’istruzione degli orfani, la sanità, gli alloggi, la giustizia... Accolgo coloro che vengono a cercarmi nel mio ufficio, ma spesso mi sposto anche nelle campagne per rendermi conto della situazione, che poi riporto alla Commissione».
A livello di giustizia internazionale, sono state adottate misure specifiche per garantire i diritti delle donne vittime di violenze?«Né per i diritti delle donne né per quelli dei sopravvissuti in generale, che io sappia. Persino al Tribunale internazionale i sopravvissuti non hanno il diritto di avere avvocati: sono ridotti al rango di testimoni, e questo li ha distrutti».
Cosa resta da fare in Ruanda?«Tutto. Molti orfani hanno abbandonato la scuola per mancanza di mezzi, i rifugi costruiti in fretta cadono a pezzi. In tanti sono rimasti infermi per le violenze subite, e l’ideologia genocidiaria minaccia ancora i sopravvissuti, perché i negazionisti sono numerosi, soprattutto in Occidente, dove regna l’impunità per i carnefici, in particolare in Francia. Bisogna lottare, tutti insieme, per non lasciare spazio a coloro che non si sono pentiti del male fatto».