Warburg intendeva fare un’archeologia – visuale, letteraria e sociale – del primo Rinascimento italiano sulla base di un nuovo oggetto assegnato alla rappresentazione e ben presto generalizzato a tutte le forme della vita culturale. Questo oggetto è il
movimento vivente, quello di cui Donatello o Mantegna cercavano i modelli, paradossalmente, sui sarcofagi romani: atteggiamenti passionali della lamentazione, ma anche ricerche erotiche o drammi di guerra. Così, ciò che fece fermare Warburg davanti ai quadri di Botticelli, come alla lettura dei poemi contemporanei di Poliziano o delle prescrizioni teoriche di Leon Battista Alberti, fu il «tentativo importante di fissare i movimenti transitori». A partire da questo dato condiviso, da questa
forma simbolica, Warburg volle concentrare lo sguardo su una particolarità figurativa che, nell’arte del Rinascimento fiorentino, ritorna regolarmente, non si trova mai tematizzata come tale, ma emerge e insiste come
forma sintomatica che modifica nel profondo l’economia delle immagini, sia che si tratti di somiglianze temporali, di costruzioni prospettiche o delle verosimiglianze della favola (l’istoria secondo Alberti). Questa forma sintomatica modifica così la rappresentazione del movimento – un personaggio che cammina o che corre, ad esempio – attraverso il supplemento di due processi fondamentali: si tratta, in primo luogo, di uno
spostamento d’intensità che si evidenzia, soprattutto, nel contrasto inatteso tra l’impassibilità sculturale delle Veneri botticelliane e quella sorta di danza passionale degli «accessori in movimento» e di altri «dettagli agitati» che le circondano, cioè quei capelli superlativamente sciolti oppure quei panneggi che si gonfiano esageratamente al vento. L’altro processo fondamentale è inseparabile dal precedente: si tratta di qualche cosa che si potrebbe definire come un
attraversamento eccentrico delle forze sintomatiche in gioco e della loro capacità di «soffiare sulla rappresentazione », come un refolo di vento – sia che si tratti di brezza o di burrasca – soffia sullo spazio dove esso giunge, dove si verifica. Infatti,
si verificano molte cose inquietanti fuori dal centro dei quadri del Rinascimento, come ne
La Primavera dove si vede, a destra, Zefiro che esce dal bosco e che feconda la ninfa Clori, e quest’ultima che «vomita» i suoi figli dalla bocca, sotto forma di un mazzo di fiori... Bisogna definire queste stranezze come degli
attraversamenti, perché modificano, da un lato all’altro, la totalità dell’immagine coinvolta da questi movimenti, a livello tanto del cromatismo e del dinamismo delle forme, quanto del loro significato. Bisogna anche qualificarli come
eccentrici nella misura in cui, spazialmente, questi
attraversamenti vengono spesso dai lati del quadro e nella misura in cui, metaforicamente, denotano ciò che Warburg ha voluto chiamare «la causa esterna dell’immagine». Una «causa esterna» di cui lo studioso cercava di teorizzare il tenore psichico dalla parte della
phantasia e delle immagini oniriche: immagini, nello stesso tempo, della memoria e del desiderio, immagini legate alla passione, cioè a un regime situato al di qua della coscienza. La
Ninfa, questo personaggio in movimento che sembra, nelle immagini del Rinascimento, emergere dal retroscena, arriva a modificare tutta l’economia della rappresentazione, facendovi passare qualche cosa della passione, della memoria o del desiderio. Warburg ne ha riscontrate innumerevoli occorrenze (di cui è testimone la sua fototeca): in Botticelli, certo, ma anche in Filippo Lippi o Pinturicchio, Mantegna o Leonardo da Vinci, Perugino o Raffaello. Un giorno, in un lato di un affresco del Ghirlandaio, nella chiesa di Santa Maria Novella a Firenze, lo studioso trovò la quintessenza di questo fenomeno. E tuttavia si trattava solo di un’ancella che portava un vassoio di frutta sulla testa che si vede «entrare » dal lato destro di un affresco della Cappella Tornabuoni, a Santa Maria Novella, che rappresenta la
Nascita di Giovanni Battista.Nuovi interrogativi allora sorgono – interrogativi che si rivolgono, in realtà, a Warburg stesso: «Dove l’ho già vista?» o più «seriamente »: «Che cos’è questa fanciulla?», qual è dunque il suo destino, «presente e di sempre»? Un modo per fare una domanda di temporalità, di sopravvivenza, al di là di ogni fattualità storica. Un modo per rivolgersi a Warburg attraverso il prisma più radicale della sua concettualità, soprattutto quello del
Nachleben – la sopravvivenza, il «dopo- vivere» – come modello sintomatico della temporalità delle immagini. Ma Warburg rimanda: preferisce stabilire il
territorio prima di interrogare lo
straniero, parlare da filologo prima di filosofare, precisare i fatti della cronologia prima di interrogare l’anacronismo rappresentato da questa figura immaginaria di
Ninfa nell’ambito del ciclo di Santa Maria Novella. Lo studioso evoca dunque i problemi prosopografici e la dialettica sociale che riguardano questo ciclo: l’assegnazione prestigiosa di questa cappella alla famiglia Tornabuoni, poi il conflitto suscitato da una realizzazione figurativa che non rispettava i termini del contratto preliminare, soprattutto perché non aveva rappresentato alcuni dei più grandi santi della tradizione domenicana, Tommaso d’Aquino o Caterina da Siena, oppure san Domenico in gloria. Non solo il Ghirlandaio non ha rispettato l’iconografia dogmatica dell’ordine religioso proprietario della chiesa, ma ha anche – certamente in accordo con il suo committente – disseminato ovunque questa figura di
Ninfa che provocherà presto i furori di Savonarola: sono i giovani affascinanti che spuntano ai lati dello
Sposalizio della Vergine; sono le vere e proprie danzatrici che attraversano l’Imposizione
del nome a Giovanni Battistae, evidentemente sotto i tratti di Salomè, il
Banchetto di Erode; è una rappresentazione in bassorilievo, ma anche un angelo – un giovane alato, effeminato, vestito all’antica – nell’Apparizione
dell’angelo a Zaccaria; sono quasi delle menadi in preda alla furia, o degli avatar di Medea, nella violentissima
Strage degli innocenti; sono, infine, una giovane donna portatrice di frutti (come nella
Nascita di Giovanni Battista) che esce dal grigiore del fondo – segnato da un muro in prospettiva e dall’arco di una porta – della
Visitazione. Eccoci, dunque, di fronte a una vera e propria strategia figurativa dell’irruzione nomade.
Ninfa appare, qua e là, come una figura sintomatica venuta da non si sa dove: dall’Antichità pagana, certo, ma quale? Con che nome? Essa
apre graziosamente le conversazioni simboliche dello spazio, che attraversa e che modifica, con una specie di perversa innocenza. In realtà, si tratta di due logiche territoriali che sono raggiunte o «criticate», messe in crisi, da questa figura nomade. Il primo territorio è quello della chiesa stessa (in quanto luogo sacro), oppure della Chiesa (in quanto comunità di credenze, valori e tabù). Da questo punto di vista, è quasi indecente, in tale contesto, vedere apparire un corpo così sensuale – di cui il panneggio accentua i contorni al livello anteriore delle braccia, delle cosce, dei seni –, questo corpo che sfida ogni gravità, dai piedi nudi e dal passo di danza. Il vestito all’antica non impone già, da solo, un’immagine di dea o di ninfa pagana, in questa scena consacrata al casto precursore del Verbo incarnato? Il secondo territorio raggiunto, perturbato dall’apparizione della
Ninfa, non è altro che quello, borghese e solenne, della famiglia Tornabuoni. Si capisce allora, da questo esempio preciso, quanto il ciclo del Ghirlandaio, nonostante la sua iconografia religiosa, incorporasse la simbolica laica della borghesia fiorentina, di cui Christiane Klapisch-Zuber ha studiato l’antropologia sociale e di cui Josef Schmid ha esaminato gli obiettivi in un’analisi della stessa Cappella Tornabuoni.