«Noi uomini di Chiesa dobbiamo essere molto più costanti e incisivi nel ribadire che tra Vangelo e mafie c’è un’inconciliabilità assoluta». Sono parole molto chiare quelle di monsignor Vincenzo Bertolone, arcivescovo di Catanzaro-Squillace e postulatore della causa di beatificazione di don Pino Puglisi.
Le mafie hanno sempre utilizzato le religiosità, sia nei loro "riti" che in esibite devozioni.«Che sono false. I mafiosi, con il loro rito di affiliazione, scelgono di appartenere a un’altra religione con a capo un padrino. Una scelta radicalmente diversa da quella di tutti gli altri battezzati cristiani, in netta antitesi con i valori evangelici. Ed a nulla vale l’immagine che la mafia costruisce di sé, dipingendosi quale organizzazione attenta ai principi del cristianesimo mediante la continua ostentazione di simboli religiosi e di immagini sacre: il distacco dagli obblighi del Battesimo è più che sufficiente ad attestare l’insanabile divergenza col cristianesimo».
La Chiesa è accusata di troppi silenzi.«La Chiesa non ha mai ignorato il fenomeno mafia sin dal secondo dopoguerra. Tuttavia la sua comprensione, valutazione e azione pastorale è maturata gradualmente. Il bellissimo e significativo documento Cei "Educare alla legalità" del 1991, che varrebbe la pena riprendere per la sua attualità, e poi nel 1993 la visita in Sicilia di Giovanni Paolo II, prima, la morte di Puglisi dopo, segnano il punto di svolta: da quel momento la denuncia civile del fenomeno mafioso diventa la regola, accompagnata da una più incisiva azione pastorale volta alla riaffermazione dei principi evangelici nella loro dimensione umana e sociale».
Che ruolo può e deve avere la Chiesa nel contrastare le mafie?«La Chiesa non è stata né sorda né cieca né muta. Molto s’è fatto, molto resta da fare nella coscientizzazione del fenomeno mafioso. Ma una risposta c’è, e ha un nome: padre Puglisi e la sua adamantina coerenza evangelica. La conversione del killer del sacerdote palermitano e la stagione di speranza che da quel sacrificio ha preso vita, sono la dimostrazione di ciò che occorre: la Chiesa, il popolo di Dio, il mondo non hanno bisogno di uomini contro, bensì di preti per l’uomo, di sacerdoti che avvertano il bisogno incoercibile di proporre, in ogni modo e con ogni mezzo, con coerenza, la verità di Cristo e ciò debbono farlo umilmente ed evangelicamente, se necessario fino al sacrificio supremo».
Come eliminare le infiltrazioni mafiose nelle feste religiose?«Attraverso una pastorale ispirata a principi evangelici, l’attento controllo delle attività legate ai riti liturgici, la formazione dei membri delle confraternite, statuti adeguati dei comitati feste, oculato discernimento nella scelta degli uomini, e coniugando sempre il rispetto delle tradizioni popolari con le esigenze e, direi anche, le ragioni della fede. Principi dai quali, ad esempio, la Conferenza episcopale calabra è partita con un documento del 2007, "Se non vi convertirete perirete tutti", in cui la questione, peraltro già affrontata anche in passato, è stata ulteriormente chiarita: le mafie, i padrini, la violenza sono fuori dal Vangelo, dunque anche dalle processioni».
Un’altra accusa alla Chiesa riguarda il perdono. I critici affermano che così si giustifica anche il mafioso: tanto poi c’è il perdono…«Non va dimenticata la forza del perdono, che, al di fuori di ogni ipocrisia, è reale solo se accompagnato dal pentimento, dalla conversione e dalla espiazione della pena. Il perdono offerto non esclude la giustizia né sottovaluta il dovere della riparazione, ma non può escludere il recupero e deve evitare ogni istinto di vendetta e forma di schiavitù del cuore, che è sempre disumanizzante. Dirò di più: il perdono facilita la giustizia, incoraggia la verità e persegue la pace. Bisogna credere nella possibilità di una redenzione del criminale, dando a tal fine anche il nostro possibile contributo».