«Arrivò un giorno, in silenzio. Nessuno di noi sapeva chi fosse. Nella mia stanza entrò un po’ curva, come una vecchierella. Quando le porsi la penna per firmare la cartella clinica lei mise una croce: "Figlia –mi disse – non so scrivere". Ora quei fogli firmati con la sua croce li conservo tutti gelosamente». A parlare è Cinzia Mazzanti, primario del Day Hospital dell’Idi, il grande ospedale dermatologico romano, fondato nel 1925 dai Figli dell’Immacolata Concezione, considerato un’eccellenza a livello internazionale, che dopo un lungo periodo di difficoltà è di nuovo in crescita, sia nelle attività di cura che di ricerca scientifica. Qui Natuzza Evolo è stata ricoverata per periodi di terapia che duravano alcune settimane, fino al 2009, anno della sua morte. Nelle stanze e nei corridoi del Day Hospital i segni del suo passaggio si incontrano a ogni angolo. Alle pareti ci sono numerose foto di lei con i dottori, con gli infermieri, con i pazienti. Qualcuno mostra sopra il tavolo una fotografia personale con Natuzza al suo fianco. Le infermiere ne parlano con entusiasmo. Alcune hanno replicato su dei "cd" la registrazione di un rosario recitato dalla mistica calabrese e appena ne hanno l’occasione ne donano una copia a questa o a quel paziente. Altre hanno coroncine e immaginette sempre pronte per accogliere le preghiere di chi ha più bisogno. Parli con loro e comprendi (sebbene non lo dicano) come tutte siano convinte che l’Istituto Dermopatico dell’Immacolata sia uscito dalla crisi che lo aveva travolto anche, o forse soprattutto, grazie all’intercessione della Evolo. Del resto, affermano, «diceva sempre che quando sarebbe morta ci avrebbe aiutato molto di più dal Paradiso che qui sulla terra». Natuzza, torna a raccontare la dottoressa Mazzanti, «veniva qui per curare una malattia dermatologica importante con prurito severo e a tratti incontenibile, dovuta a una cardiomegalia con conseguente epatopatia. L’abbiamo seguita, curata e negli anni il problema si era anche attenuato. Lei però continuava a venire ritenendo, credo, che avesse qui una missione da compiere. E se è vero che sono i frutti a testimoniare della bontà dell’albero, devo dire che frutti se ne sono visti tanti in termini di conversioni, di riavvicinamenti alla fede, di fiducia, di serenità e di accettazione della sofferenza in tanti malati. Ho visto medici e infermieri quasi atei che ora hanno una vita spirituale intensa. E tanti venivano a trovarla, soprattutto preti, vescovi, una volta anche un cardinale». Naturalmente risulta spontanea una domanda sulle stigmate. «Sì, ho visto le sue ferite, ma non me ne sono occupata», risponde la dottoressa, molto più interessata a sottolineare, come medico, il fatto «che non si lamentava mai. Soffriva e non si lamentava. Diceva che accettava la sofferenza per alleviare quelle di Gesù e che da quella accettazione le veniva la pace e la serenità. I malati qui vengono per guarire e, giustamente, si lamentano per le loro patologie. Lei, invece, col suo candore, con la sua umiltà, diceva a noi medici: "Non vi preoccupate se il prurito non mi passa"». Ma cosa c’era in lei che attraeva così tanto? «La sentivi parlare ed era come se le sue parole fossero Vangelo vivo. Non serviva vedere le stigmate per capire che lei viveva il Vangelo sulla sua pelle. "Le persone dicono di credere in Gesù – spiegava – ma non lo seguono. Dicono di credere in Dio poi interpretano la Bibbia, adattano gli insegnamenti di Gesù al loro comodo. Ma la fede è abbandonarsi a lui, al suo amore. Segui i suoi consigli e troverai la pace. Se hai la fede e chiedi una cosa giusta, devi sapere che ti è già stata data (su questo ho avuto da lei dimostrazioni evidenti). La fede è viva, la fede è vita e va vissuta in ogni momento". C’era una collega che aveva un figlio molto problematico. Ogni volta che incontrava Natuzza le chiedeva: "Mamma natuzza, prega per mio figlio". "Figlia – rispondeva lei con la sua parlata calabrese – certo che ci prego". Un giorno, dopo l’ennesima richiesta di preghiere, lei la guardò e con una durezza che raggelò pure me che ascoltavo, rispose: "Io ci prego, ma tu quando ci preghi?". Da quella volta quella collega dice il rosario tutti i giorni». E il figlio? «Ora è serio e sereno». Cinzia Mazzanti si sofferma a lungo a parlare sul come anche il rapporto fra i colleghi e quello del personale con i malati sia molto cambiato dopo il passaggio di Natuzza. Poi si illumina: «Un pomeriggio, in corridoio, mi disse. "Figlia, vieni, sediamoci qui". Ci sedemmo su una panchetta e cominciò a parlarmi della Misericordia di Dio. Io non ricordo più le sue parole. So soltanto che quel pomeriggio la Misericordia l’ho sentita nel cuore e non la dimentico più».