Nasiriyah non c’è, nel titolo. Venti sigarette, e basta. Fumate nel volgere di una notte e di una mattinata. Una misura del tempo breve eppure lunghissima, come può essere un ricordo. O semplicemente un dettaglio del giorno che ti avrebbe cambiato per sempre. Nasiriyah, Iraq del sud, 12 novembre 2003, ora 10:40 locale, in un attentato perdono la vita 19 italiani: 12 carabinieri, 5 soldati e 2 civili. Tra i superstiti c’è Aureliano Amadei. Venti sigarette, e basta. Quelle che si ricorda di aver fumato da quando è arrivato in Iraq a quando c’è stata l’esplosione. Venti sigarette, e basta, ora anche nel titolo. Senza aggiungere «a Nasiriyah» come nell’omonimo libro del 2005 che Amadei ha scritto con Francesco Trento in un’immersione autobiografica nel cuore di tenebra dell’orrore di quella mattina. «Abbiamo deciso di togliere 'a Nasiriyah', il nostro sarà un racconto che non vuole essere solo la fredda cronologia di quell’evento». Gianni Romoli è lo sceneggiatore e uno dei produttori (assieme alla sodale Tilde Corsi nella R&C Produzioni, a Claudio Bonivento e a Rai Cinema) del film tratto da Venti sigarette a Nassiriya, di cui ieri sono cominciate le riprese. Proprio nella giornata che ha visto di nuovo i militari italiani oggetto di attentati, stavolta in Afghanistan. Sette settimane di lavoro: cinque a Roma e a Fiumicino, dove verrà ricostruita la caserma italiana, e due in Marocco, per gli esterni del deserto. Prima di Romoli alla sceneggiatura hanno lavorato il co-autore del libro Francesco Trento e Volfango De Biasi. La regia è dello stesso Amadei. «Abbiamo pensato subito a lui. È sicuramente la vera forza del film. Raccontare la storia che si è vissuta. In un certo senso è la prima volta che il regista è anche il protagonista di un episodio storico e mediatico così forte». Aureliano Amadei è l’unico civile sopravvissuto alla strage. Era a Nasiriyah come aiuto di Stefano Rolla, il regista, morto nell’esplosione, che avrebbe dovuto effettuare le riprese per un documentario sulla missione italiana in Iraq. Nove operazioni, una gamba che fa male, il passo claudicante, gli attacchi di panico, la sordità a un orecchio: Amadei ha cercato di rinascere a poco a poco. Un passato di studi di recitazione e il salto – poi – nella regia. Ha girato dei corti e alcuni documentari per La Storia siamo noi di Gianni Minoli. Oggi, a 33 anni, ha davanti a sé quello che indietro è difficile lasciare. Amadei ha il suo incubo tra le mani e lo rivivrà per raccontarlo nella sua prima opera per il cinema. «Il film – racconta Romoli – non è la cronaca oggettiva di cosa è successo a Nasiriyah. Ma è una visione in soggettiva di chi si è trovato suo malgrado protagonista. È la storia di un ragazzo, precario nel lavoro, con un’i- deologia fortemente antimilitarista che si butta in un viaggio al seguito di un regista. In Iraq abbandona i propri pregiudizi perché scopre l’umanità dei soldati, delle persone che ha intorno. Ma non avrà abbastanza tempo per conoscerle…». Nel film Aureliano Amadei sarà Vinicio Marchioni ('Il Freddo' nella serie Sky di Romanzo Criminale), scelto perché «una faccia molto famosa non avrebbe garantito l’identificazione nella vicenda», mentre Carolina Crescentini è Claudia, la ragazza che starà vicino ad Aureliano durante tutta la degenza. Alle fine diventerà la madre di sua figlia. «Venti sigarette è soprattutto questo: la crescita di un ragazzo che diventa uomo, poi padre, matura e prende consapevolezza di quali siano le proprie responsabilità. Vivendo la guerra ha capito che noi non siamo solo vittime, ma anche responsabili di quello che succede nel mondo. La sua è una piccola storia dentro la Storia con la ’s’ maiuscola. La Storia di cui la tv ci bombarda lasciandoci indifferenti, lui l’ha vissuta da dentro». A un passo dalla morte. C’è un prima, lui a Roma tra i mille lavoretti, dove i toni sono anche da commedia. C’è un mentre, Nasiriyah, la tragedia improvvisa, e poi c’è un dopo, la degenza nell’ospedale militare americano e al Celio. Non sarà possibile, assicura ancora Romoli, un paragone con Nasiriyah , la fiction di Michele Soavi con Raoul Bova: «Sono due cose completamente diverse. Quella era un’opera agiografica, celebrativa. La nostra è antiretorica. È un film che cerca la sua verità, che è la verità di una persona. Però lo scenografo sarà lo stesso, Massimo Santomarco. Aveva una documentazione sterminata».