Nel ventre della collina di Capodimonte, e giù nelle viscere della Sanità, nei meandri carsici aperti da mani d’uomo scorre la storia di Napoli. È lì, in alto e dentro, l’embrione della fede nella città plurimillenaria. È nel grembo di tenero tufo giallo l’essenza di Napoli. È in quelle che furono, sono, saranno le Catacombe di san Gennaro che si mostra e si dispiega l’anima di Napoli. Luogo di cristianità, di arte, di cultura, di bellezza. Testimonianza di fede. Nelle cavità scoscese e labirintiche si concentrò la
pietas cristiana dei primordi. Catacomba - «ai dirupi profondi», letteralmente - e fu parola usata come sinonimo di cimitero sotterraneo cristiano per la prima volta proprio a Napoli nel secolo IX.Il tempo che indebolisce la memoria, scalfisce la pietra e corregge i sentieri dei pellegrinaggi ha velato a lungo la bellezza e la spiritualità delle catacombe ianuarie, ma da tre anni la collaborazione tra la Diocesi di Napoli, la Pontificia Commissione di Archeologia sacra e le massime istituzioni pubbliche, cui si è aggiunta la campagna di adozione delle opere d’arte del Rione Sanità «Teniamo in vita il passato», consente interventi di riqualificazione, recupero e valorizzazione del complesso monumentale. Sinergie che fanno riemergere volti e storie. Bitalia e Cerula sono due grandi donne sepolte tra il V e VI secolo e ritrovate meravigliose nel XX. Forse diaconesse, il che non deve stupire. «Sappiamo dalle lettere di Paolo e dagli Atti degli Apostoli che le donne svolgevano ruoli significativi di "diaconìa" ed erano ordinate con l’imposizione delle mani - spiega la teologa
Adriana Valerio, curatrice tra l’altro della
Bibbia delle Donne (edizioni Il Pozzo di Giacobbe) -. Dagli studi emerge sempre più con chiarezza che la donna ha giocato un ruolo importante nella Chiesa delle origini. La sua presenza accanto a Gesù come discepola, che i Vangeli attestano, ci dicono che il messaggio di Gesù, rivolto a tutti indistintamente, ha avuto molta presa sulle donne». Due donne, le braccia aperte per un’invocazione tra due evangeliari e con i simboli dell’alfa e dell’omega, ad indicare l’intimità con Cristo. Ai lati dello stupendo e grandioso monumento funebre di Cerula vegliano le figure di san Paolo e di san Pietro. Elementi che riferiti alle donne si trovano solo nelle catacombe ianuarie. «Anche se il termine "diaconesse" è successivo - spiega don
Gennaro Matino - nella Chiesa delle origini le donne avevano ruoli importanti: per i battesimi delle donne, che avvenivano per immersione, nell’educazione delle donne. Sui ministeri femminili gli studi confermano infatti che le donne avessero ministerialità di catechesi e di accompagnamento in alcune pratiche liturgiche». Il velo alzato prepara a entusiasmanti scoperte. In un arcosolio non ancora restaurato, e individuato proprio sulla tomba di san Gennaro, si intravedono i tratti di un’altra donna. È ancora avvolta nella nebbia polverosa delle incrostazioni di terra e di calce, ma che si trovi lì, accanto al martire patrono, la fa immaginare con un compito rilevante nella Chiesa primitiva neapolitana. La presenza di tante donne, e si suppone in ruoli di prestigio, in un luogo sacro ancorché pubblico rafforza il simbolismo femminile di Napoli dove «la figura centrale del pathos è la madre, il padre è figura evanescente - osserva l’antropologo
Marino Niola. - È l’ombelico orientale, greco-bizantino, della città che resiste ancora oggi». E che va riscoperto perché Napoli «può essere salvata solo dalle donne». È in questo fertile sottosuolo, dove si può leggere un «passato migliore del presente», chiosa ancora Niola, che Napoli può ripensare sé stessa. Architettonicamente ardite e topograficamente originali, le catacombe ianuarie si schiudono per centinaia di metri, non tutti noti, su due piani non sovrapposti - i cosiddetti vestiboli - in ampi spazi da cui si dipartono gallerie dove la luce di lampade discrete, riflessa dal giallo caldo delle pareti, si rincorre negli ambulacri, nei cubicoli, nei nicchioni, negli arcosoli, rivelando pitture e mosaici, numerosi, pregevoli, vividi. Furono luogo per celebrare, pregare, seppellire. Luogo da ritrovare ogni giorno. Per la costante alternanza di slarghi e gallerie, il complesso catacombale appare scavato in una struttura unica. Si sono invece estesi e sviluppati, come in un prezioso tessuto, almeno cinque ipogei. Il nucleo più antico è il cosiddetto vestibolo inferiore, sorto tra la fine del II e gli inizi del III secolo d. C. «La documentazione archeologica e letteraria, pur ammettendo lacune ed omissioni, lascia presumere che la Chiesa napoletana abbia avuto origine tra la fine del II secolo e il primo ventennio di quello successivo», conferma lo studioso
Giovanni Liccardo, uno dei massimi esperti di archeologia cristiana. È quasi certo che il complesso cimiteriale ianuario in origine fosse il sepolcro di una famiglia gentilizia convertitasi concesso alla nascente comunità cristiana.La decorazione delle pareti e della volta nel vestibolo inferiore riecheggia lo stile classico: motivi ornamentali, riquadri geometrici, uccelli, serti di fiori e animali fantastici. In un ambiente annesso fu sepolto e venerato il vescovo Agrippino (III secolo) ed è dal suo sepolcro, il cosiddetto oratorio, che si sviluppò la catacomba inferiore con una basilica cimiteriale dove la cattedra episcopale è ricavata nella roccia tufacea e l’altare si innalza isolato. Il grandioso ambulacro superiore,
basilica minor, è sorto sul
cubiculum in cui furono deposti i resti mortali di san Gennaro, martirizzato a Pozzuoli nel 305, traslati qui dal vescovo Giovanni I tra il 413 e il 432. In un affresco si riconosce la più antica icona del santo patrono, ritratto sullo sfondo del Vesuvio. Da allora le catacombe presero il nome del vescovo martire e in suo onore fu innalzata, appena fuori, protetta dal costone dove si affacciano i cubicoli della zona greca, la
basilica maior extra moenia, ritrovata dopo cinquant’anni di abbandono, restaurata e ridata splendida alla comunità. Sul sepolcro di san Gennaro sorse poi la basilica dei vescovi, che osservano dai ritratti mosaicati. Gli occhi di Quodvultdeus, vescovo di Cartagine, in esilio a Napoli dove morì nel 454, riflettono ancora la nostalgia per la patria lontana e seguono chi li guarda fin dentro al cuore.