lunedì 4 gennaio 2010
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«Arrivò così il 18 marzo, un sabato. Fu quel giorno che il Vesuvio entrò in eruzione. Una gigantesca colonna di fumo saliva molto in alto... Si sfilacciava, ondeggiava, si spandeva per riformarsi di nuovo, e in quella massa esplodevano lampi. Da casa della signora Ruggieri non si vedeva affatto il vulcano, non si vedeva altro che la fumata accompagnata da un sordo mugghiare. Intorno a noi esclamazioni, invocazioni al patrono della città San Gennaro, mentre le vecchie mormoravano preghiere con il rosario fra le dita». Così lo scrittore franco-algerino Emmanuel Roblès, testimone dell’evento, descrive il terrore che serpeggiava in Napoli il giorno in cui il Vesuvio si scatenò con l’ultimo (per ora) colpo di testa della sua storia millenaria, l’eruzione del 1944. Una mazzata maramaldesca contro una città messa in ginocchio dalla guerra ancora in corso e del tutto indifesa contro i proiettili infuocati che cadevano dal cielo, così come era stata impotente contro le bombe degli alleati e le devastazioni dei tedeschi. Quel pomeriggio del 18 marzo cominciò «lo spettacolo più maestoso e terribile che abbia mai visto», lascerà scritto Norman Lewis in Napoli ’44. Curzio Malaparte (La pelle) descriverà il diluvio di lapilli che si rovesciava sulla terra e sul mare «con fragore di un carro di pietre che rovesci il suo carico». Il giorno dopo, l’attività eruttiva si intensificò con colate incombenti sugli abitati di San Sebastiano e Massa di Somma mentre scorie e lapilli investivano prevalentemente l’agro Nocerino-Sarnese. Le ceneri mosse dal vento si spingevano verso est e nord-est a centinaia di chilometri di distanza dal cratere. I flussi lavici presero ad arrestarsi solo il 23 marzo, ma intanto a causa dell’eruzione avevano perso la vita 26 persone. Incalcolabili i danni materiali alle strutture civili e anche a quelle militari: cenere e detriti sommersero perfino il campo di aviazione che gli alleati avevano approntato a Terzigno, base di un’ottantina di bombardieri B25 impegnati sul fronte di Cassino. La Napoli di oggi e la Campania, schiacciate dai mille problemi, hanno finito per dimenticare quelle terribili giornate. A tenere viva la memoria di un evento di cui in zona rimangono tracce ben visibili, provvede ora una poderosa ricerca storico-documentale condotta da due vulcanologi dell’Osservatorio vesuviano dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia, Elena Cubellis e Aldo Marturano, che hanno presentato pochi giorni fa a Napoli le risultanze di una indagine protrattasi per alcuni anni. Un lavoro di meticolosa individuazione dei testimoni superstiti e di registrazione puntuale di ricordi, paure, angosce, impressioni. Sentiti anche molti testimoni indiretti, figli o nipoti che in famiglia avevano ascoltato dai parenti i racconti dell’incubo. Il materiale è condensato in 307 schede individuali con informazioni relative a un centinaio di località di 92 comuni. Pagina dopo pagina, le parole semplici e scarne di chi ha visto, tremato e pregato, danno corpo a dolorose memorie, che ci riportano indietro di 66 anni. Ciro Saporito, da Cercola, aveva 8 anni. Ricorda «la lava che avanzava lentamente e inghiottiva i palazzi. Si fermò a circa 500 metri da casa mia». Da Apollosa, Mariacarmela Pirozzi riferisce il racconto della nonna: «Già la sera precedente si sentiva un rumore continuo e si avvertivano deboli scosse. Gli animali erano strani, agitati; i cani abbaiavano in continuo e gli animali di grossa taglia cercavano un nascondiglio». Mario De Natale viveva ad Avellino: «Era scuro anche in pieno giorno, tanto che pensavamo, non avendo notizie, a una eclissi di sole... Il cielo cominciò a schiarirsi dopo qualche giorno». Rosalia Illiano è di Bacoli: «Assieme a mia madre vedevo con il buio gli spruzzi infuocati e la lava che scendeva a mare». Maria Grazia Fera, dal padre, pompiere a Santa Maria Capua Vetere, apprendeva che la lava scendeva e distruggeva i paesi vicini. «Temevamo che potessero accadere terremoti e così per circa una settimana dormimmo all’aperto». I più esposti alla minaccia si sentivano all’inizio i napoletani, poi si capì che le correnti d’aria spingevano altrove cenere e lapilli. Maria Aprea, all’epoca 14enne, ricorda la paura generalizzata, i progetti di fuga nel caso la lava si fosse avvicinata. «Quando sapemmo che la lava si fermò tra Massa e San Sebastiano fummo tutti più sereni». E tuttavia era difficile esorcizzare le peggiori angosce: «Con la mia famiglia – dice Annamaria Damiano, che aveva 11 anni – ci allontanammo da casa nostra per riparare a casa di parenti. Fu solo una precauzione». San Gennaro, invocato dalla donne notate da Roblès, aveva ancora una volta steso il suo manto protettivo sulla città e lo spettro apocalittico di una nuova Pompei si era dissolto. A decenni di distanza, il peso specifico delle testimonianze raccolte dai ricercatori dell’Osservatorio vesuviano sta nell’ammonimento che da esse viene: quella del ’44 fu l’ultima eruzione in ordine di tempo, e nemmeno tra le più catastrofiche, ma non è detto che debba essere l’ultima in assoluto perché il vulcano è ancora vivo. In sonno, ma vivo. Mentre l’area circostante si è trasformata in una sconfinata megalopoli, dove si accalcano milioni di abitanti esposti ai capricci delle forze endogene. In tale contesto, il lavoro di Cubellis e Marturano ha il merito di contribuire alla promozione della cultura della sicurezza. «Già allora, si pose il problema di un piano di sgombero per le popolazioni», ricorda l’ex sindaco Pietro Lezzi. In una Italia che i piani non li sa fare, le voci dei testimoni di quelle giornate servano, quanto meno, ad approfondire «le problematiche relative alla mitigazione del pericolo in un’area tra quelle a più alto rischio vulcanico del mondo», auspica Marcello Martini, direttore dell’Osservatorio.
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