mercoledì 16 settembre 2015
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​Tra «eredità» e «ereditarietà» si gioca una curiosa scena di trasmissione, generazione, derivazione e differenziazione con tanto di retroazione, contaminazione e contagio. Chi passa cosa all’altro? Chi passa cosa al soggetto del passaggio, della trasmissione? Come individuare e discernere il continuo dal discontinuo, lo spontaneo dall’intenzionale?
 
 
Che cosa abbiamo dunque ricevuto in eredità noi, europei di oggi, insieme a questo groviglio semantico e retorico? Abbiamo ereditato essenzialmente due ordini di preoccupazioni: il primo si riferisce a tutto quanto riguarda le trasmissioni genetiche, a come si determinano, si utilizzano, si manipolano. Insomma un insieme di questioni riconducibili all’ambito della legge, della decisione e quindi di ciò che vogliamo lasciare in eredità alle generazioni future in materia di trasmissione della vita – e di quale vita.
 
 
Il secondo ordine di preoccupazioni si riferisce a tutto ciò che riguarda la nostra provenienza, ciò che nel nostro presente e nella sua dimensione globale proviene, o sembra provenire, da un passato di cui continuiamo a considerare e valutare gli effetti – come quando evochiamo le origini cristiane dell’Europa, l’Illuminismo come generatore del mondo moderno, una tecno-scienza in evoluzione e rivoluzione permanenti. Da dove veniamo noi, che non sappiamo più dove andiamo, né se andiamo da qualche parte?
 
 
Che cosa ci è stato trasmesso e che cosa ci prepariamo a trasmettere? Ma «noi» chi? Per l’appunto, quanti si considerano uniti tra loro da eredità o ereditarietà, senza sapere se si tratta di natura o di legge; quanti hanno la consapevolezza acutissima e ardua di non appartenere più semplicemente a una famiglia, una genealogia, una tradizione o una memoria. Una frase di René Char scelta da Hannah Arendt come esergo di una sua opera (frase che senz’altro sentirete spesso citare durante questo festival) esprime con forza ciò che ci conduce alla perplessità, se non all’aporia: «La nostra eredità non è preceduta da alcun testamento».
 
 
Il testamento viene fatto davanti a testimoni, come dice il nome stesso. I testimoni attestano che c’è stato un atto volontario di uno spirito illuminato, c’è stata una decisione nel rispetto dei vincoli generali imposti dalla legge e dai costumi. L’assenza di testamento priva l’eredità non solo di ogni legittimità, ma anche della sua stessa possibilità, dato che manifestamente nemmeno lo Stato può provvedere a dar seguito alla successione. In altri termini: noi succediamo senza  sapere cosa fare della nostra successione, senza sapere neppure come riceverla e senza dubbio senza conoscerne la composizione. Non possiamo più o non siamo più capaci di essere legatari, ovvero discendenti legali della nostra storia.
 
 
Eppure, nonostante questo, siamo eredi, abbiamo una provenienza e qualcosa di questa provenienza ci viene trasmesso. Ma siamo eredi nella forma di una eredità elementare e in forza di una successione motivata solo dal "venire dopo" e dal "proseguire", senza distinzione: il semplice "dopo" ha il valore di "sulla base di", la sequenza produce conseguenze, senza che ci sia dato sapere né come né perché. Per di più, sembra che le conseguenze si concatenino ormai secondo logiche proprie dello sviluppo tecnico (del resto, si parla spesso di "generazioni" nell’ambito dei  dispositivi tecnologici ). […]
 
 
Ciò che è venuto a mancarci è la trasmissione stessa, il suo atto, il suo senso, la sua effettività. Un tale stato di cose appartiene forse al nostro tempo da quando è entrato in una guerra indefinitamente e globalmente polimorfa: la guerra, infatti, rappresenta  al tempo stesso un’accelerazione, una convulsione e una stasi della trasmissione. Nel suo romanzo del 1921 I tre soldati, Dos Passos snocciola i pensieri dei soldati americani che nel 1917 aspettavano di imbarcarsi alla volta dell’Europa: «Si trattava solo di inutili stravaganze? […] Quando erano ragazzi, non avevano avuto dei sogni anche loro? O le generazioni precedenti li avevano preparati a vivere soltanto nel presente?».
 
 
Le nuove generazioni non vengono più alla luce per rinnovarsi, né per innovare, ma solo per presentarsi a una sorta di inanità dubitativa; non si dà più né iniziazione a una maturità compiuta, né nascita a un mondo nuovo: e tutto questo senza dubbio è cominciato verso il 1917, proprio nel momento – e non è un caso – in cui quel mondo ha creduto di poter fare «tabula rasa del passato» affinché «il mondo cambiasse dalle fondamenta», ovvero si ricreasse di nuovo non ereditando niente da nessuno.
 
 
Non abbiamo trasmesso a noi stessi il senso della trasmissione. Abbiamo dato inizio a un’epoca in cui coesistono l’idea del cominciamento assoluto e quella della sospensione totale, che sono l’una il rovescio dell’altra. Il retaggio è scomparso dalla nostra eredità e l’eredità si è trasferita a un’enorme macchina in fuga incontrollata e esponenziale piuttosto che al passaggio tra generazioni.
 
 
(traduzione dal francese di Michelina Borsari)
 
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