Lo scopo è generare aggregazione, facilitare lo scambio di informazioni, rafforzare le competenze in campo. Monsignor Giancarlo Santi, forte dell’esperienza decennale maturata alla guida dell’Ufficio beni culturali della Conferenza episcopale italiana, è appena stato nominato presidente dell’Amei (
Associazione musei ecclesiastici italiani) e ha idee molto precise sugli scopi che intende perseguire, ma anche sulle difficoltà da superare. «Tra le associazioni museali europee l’Amei, sorta nel 1996, è la più giovane. Dovremo trovare il modo di favorire la cooperazione: il che nel nostro Paese, prono al localismo, non è privo di problemi. Di recente, in occasione di un incontro a Caltanissetta, ho tratteggiato l’ipotesi di alcune iniziative concrete: anzitutto dar luogo a giornate formative, volte alla discussione dei servizi didattici offerti dai singoli musei, all’approfondimento del collegamento tra museo e flusso turistico, a esplorare le possibili collaborazioni con gli enti pubblici. Bisognerà inoltre individuare il modo migliore per tener vivi i contatti tra i circa mille musei ecclesiastici italiani: penso per esempio di attivare periodiche riunioni regionali, perché ogni area geografica ha caratteristiche proprie, che vanno valorizzate».
Qual è il curriculum per la formazione di chi si occupa dei musei? «Non esiste. Le istituzioni accademiche formano eccellenti storici dell’arte, ben consapevoli dei problemi collegati alla ricerca e alla conservazione, ma al direttore di un museo si richiede qualcosa di più: la capacità di coordinare competenze in campo amministrativo, imprenditoriale e della comunicazione. L’Amei dovrà quindi agire per integrare il sapere dello storico dell’arte. Un organismo dell’Unesco, l’Icom (International council of museums), ha elaborato un profilo professionale specifico per i gestori dei musei, che può essere un riferimento importante».
Qui si entra nell’annoso problema delle risorse: di cui la cultura è consumatrice e non produttrice... «Entro i nostri confini vi sono solo due istituzioni considerabili "redditizie": gli Uffizi e i Musei Vaticani, grazie all’imponente flusso di visitatori. E in questo periodo stanno diminuendo le risorse pubbliche a disposizione della cultura, mentre quelle private sono sempre state modeste; questo ovviamente costituisce un problema aggiuntivo per i musei ecclesiastici, che sono spesso di piccole o piccolissime dimensioni. Sarebbe utopico supporre di portare tutti i musei a condizioni di redditività: essendo un servizio importante per la formazione della persona, il museo – come la scuola – opera in un campo estraneo a quello della contabilità ed è giustificabile la sua gratuità. D’altro canto il patrimonio culturale non solo dev’essere conservato, ma anche valorizzato: il che a sua volta significa usarlo come strumento educativo e comunicativo. Bisogna quindi operare per aumentare l’attrattiva esercitata sul pubblico dai musei ecclesiastici, per esempio tramite iniziative collaterali, naturalmente studiate in coerenza con la vocazione del singolo museo: eventi speciali, esposizioni tematiche, momenti conviviali, eccetera. In mancanza di questi, una volta vista la collezione permanente, nessuno desidera più ritornare».
Anche un museo parrocchiale può mirare a imporsi all’attenzione? «È questione di capacità gestionali, anche nelle realtà più piccole. Queste si giovano del costituirsi di "reti", come è stato fatto a Bergamo, San Benedetto, in Valle d’Aosta e altrove. Le postazioni computerizzate nel museo diocesano ricollegano ai musei locali, indicandone i contenuti e i modi per raggiungerli. Sarebbe opportuno studiare un progetto comune che in tutte le diocesi colleghi le istituzioni museali in percorsi, così che il visitatore sia indirizzato ad approfondire la conoscenza del territorio in tutte le sue articolazioni. Ma al di là di questo, la "rete" funziona anche per ottenere un miglioramento qualitativo ed economie di scala. Per esempio in Sardegna diversi musei hanno standardizzato gli apparati espositivi. Con iniziative di questo genere si può concordare un tipo di espositore gradevole e funzionale, spuntando prezzi ridotti grazie al numero di esemplari ordinati; se a un singolo musei ne servono pochi, a una rete museale ne serviranno molti. La standardizzazione e l’interconnessione risultano immediate a livello informatico: e la presenza in Internet di siti dedicati funge anche da momento propagandistico. A Reggio Calabria i musei sono in Internet, e arrivano visitatori anche dall’estero. Occorre far maturare l’idea che i musei ecclesiastici non devono sopravvivere, ma essere ben gestiti, farsi conoscere e apprezzare».
C’è un problema di comunicazione... «La capacità di comunicare è basilare: sia all’interno, sia all’esterno. Il sito Web di Amei va usato per confrontare e scambiare informazioni ed esperienze tra i diversi musei, e ogni museo può farsi conoscere con un proprio sito Internet. Comunicare è essenziale: realizzare qualcosa senza farla conoscere è come non far nulla. Nel suo complesso, la "rete" dei musei ecclesiastici italiani è la maggiore esistente: ricca di capolavori, capace di mostrare la storia della Chiesa in tutte le sue articolazioni, e di offrire la catechesi attraverso il coinvolgente linguaggio dell’arte, capace di parlare con pari impatto sia ai ragazzi, sia agli adulti. Oltre a questo, il museo ecclesiastico è anche luogo privilegiato per il dialogo con gli artisti di oggi: potrebbe dar luogo a nuove committenze e offrire spazi espositivi per l’arte contemporanea; a Milano, e anche a Bergamo, Padova e altrove vi sono già iniziative in tal senso».