Capanne, alberi, colori intensi come i sorrisi, inspiegabili, degli abitanti. Niangara è un villaggio remoto di un Paese altrettanto remoto - almeno per il pubblico occidentale -: la Repubblica democratica del Congo. Una mano bianca digita frettolosamente sulla tastiera: elettricità e connessione a Internet possono cadere da un istante all’altro. «Qui la malaria, che è praticamente endemica, e l’Aids, con le sue complicazioni, uccidono senza pietà adulti e, in particolare, bambini (….) Bisogna fare un gran lavoro su se stessi per trovare una specie di equilibrio interiore: è normale abbattersi e anche piangere, ma bisogna riuscire subito a rialzarsi; c’è troppo da fare».La mano appartiene a Maria Cristina Cirella, di professione anestesista. La giovane torinese è alla prima missione con Medici senza Frontiere (Msf). Come centinaia di italiani - 260 solo nei primi dieci mesi del 2012 -, Maria Cristina ha lasciato casa, città, famiglia e routine ed è partita per uno dei tanti "buchi neri" del mondo. Mossa da un’idea, da una necessità urgente, irrazionale forse, eppure insopprimibile. Quella di "non restare a guardare" la guerra, la fame, il dolore di donne e uomini nati dalla "parte sbagliata" del pianeta.
Noi non restiamo a guardare è il titolo del libro-testimonianza scritto dai protagonisti di Medici senza Frontiere, da oggi in libreria per Feltrinelli, con la prefazione di Dacia Maraini e testimonianze di vari autori (Daria Bignardi, Silvia Di Natale, Andrej Longo, Antonio Pascale, Renata Pisu, Antonio Scurati). Il ricavato finanzierà i progetti dell’Ong. Il saggio raccoglie le voci di 38 operatori - medici, infermieri, anestesisti ma anche architetti, logisti, educatori e psicologi - che hanno scelto di lavorare per l’organizzazione, premiata 13 anni fa col Nobel per la Pace. Lettere, pensieri, riflessioni, inviati dall’Asia, dall’Africa, dall’America Latina o dall’Est Europa. Perfino dall’Italia: da quei crocevia dell’immigrazione dove il Sud del mondo entra, attraverso masse di profughi e disperati, nelle nostre case. Racconti diversi, senza un filo logico. Perché non può essere la sola logica a unire questi "sfoghi notturni". A cucirli insieme è un percorso intimo di esplorazione emotiva di sé e dell’altro. Non è un puro fatto celebrale, la conoscenza. «Passa dal cuore, dall’incontro reale, dal tatto, dai sensi, dalla carne, dall’emozione - scrive da Mineo, in provincia di Catania, l’educatore Giordano Ruini, impegnato a rendere più umane le condizioni degli stranieri ospiti del centro per rifugiati -. È accogliere, ascoltare, esserci, lasciarsi attraversare, non dare niente per scontato. Questo può trasformare e cambiare le cose». Non sono eroi gli italiani di Msf. Tutt’altro. Sono esseri umani comuni: stanchi, nostalgici, arrabbiati a volte, altre allegri. Se un tratto li accomuna è la folle saggezza di non rassegnarsi alla «banalità del male». Che nel Sud del mondo, spesso, è ancora più banale. Come le morti ci centinaia di migliaia di bambini causate da morbillo, malaria, meningite, influenza, fame. Malattie facili da curare qualche parallelo più a Nord. «I cadaveri di questi bambini - dice Sara Gaspani, farmacista catapultata in Burkina Faso - sono lo specchio di un mondo ingiusto e, purtroppo, indifferente». Non pretende di cambiarlo il dottor Antonio De Giovanni che, sull’aereo per Milano dopo la missione in Colombia, si continua a domandare: «Perché lo sto facendo? E soprattutto, per chi lo sto facendo?». Non trova risposta e conclude: «Chi fa questa scelta per avere delle risposte sbaglia, questa scelta non dà risposte, aggiunge solo altri interrogativi. Ma forse è proprio per questo che vale la pena di essere vissuta».Annamaria Ronca, amministratrice nella clinica di Kabezi, in Burundi, una risposta sente di averla trovata. «Ricordi che ti dicevo che non vedevo l’utilità del mio ruolo - scrive alla madre .? Beh oggi l’ho vista. (…) Le mie scartoffie aiutano lo staff medico a lavorare bene per aiutare queste donne a partorire i loro bambini». Spesso, però, lo sconforto, la disperazione, l’impotenza prevalgono. Sente solo un terribile «amaro in bocca» il logista Claudio Bertoldo mentre vede sfilare la desolazione di Port-au-Prince, ancora in macerie a quasi tre anni dal terremoto. L’infermiera Daniela Oberti si sente «incapace e frustrata» perché non può rispondere a tutte le richieste di aiuto che incontra nella baraccopoli Tora Bora di Gibuti. Ma se anche potesse «quante altre baraccopoli ci sarebbero al mondo?». Tante, troppe, infinite. E allora che senso ha affrontare sacrifici, scomodità, lasciare i propri affetti, la propria vita per un anno o per sempre, si interrogano - e ci interrogano i 38 operatori di Msf. Alla fine, una certezza emerge con forza da ognuna delle pagine testimonianza. Per dirla con le parole inviate dal chirurgo Bengasi Battisti dalla Costa d’Avorio: «Il mondo (…) non cambierà mai. A noi non resta che scegliere da che parte stare. Qui per noi è molto più semplice scegliere la parte giusta: "È quel corpo coperto di teli verdi, anonimo e indistinguibile, per il quale dobbiamo lottare. Per strapparlo alla morte e mantenerlo in vita».