Sarà perché siamo tutti un po’ eredi di quella cultura dell’orrore e del sangue che ha fatto del Seicento un secolo di passioni forti, spesso terribili (ma qui dobbiamo qualcosa anche a Michelangelo, al quale Vasari riconosce quello stile potente che si spinge fino alla terribilità); sarà perché, quando vediamo la testa di Medusa del Caravaggio che grida, quasi fino a slogarsi la mascella, ci prende un moto di inquietudine, come se vedessimo la nostra morte riflessa in quello “specchio” che simula la fine della gorgone con impressionante realismo; sarà perché i secoli moderni, quelli più vicini a noi, di orrore si sono nutriti frequentando gli abissi del mondo, che poi sono una proiezione di quelli umani come sapevano bene i romantici, profondità nere e insondabili popolate di corpi sacrificati, teste decollate, esibizioni “pedagogiche” di cadaveri sulle piazze, con annesse torture fisiche e psicologiche prima del colpo di grazia, fatti reali e immaginari che si mischiano nello sguardo del nostro tempo.Sarà per tutto questo e per molto altro ancora, che addentrandomi nel labirintico e segmentato percorso negli spazi di Palazzo Massimo, dove ha sede il Museo Nazionale Romano e dove ora sono esposti i reperti archeologici di una singolare rassegna intitolata Mostri/Monster, ovvero «creature fantastiche della paura e del mito», a cura di Rita Paris, Elisabetta Setari e Nunzio Giustozzi (catalogo Electa), ecco, per tutto quanto di oscuro e tenebroso ci hanno trasmesso i secoli a noi prossimi, mi pare quasi di fare una passeggiata in una galleria delle meraviglie, dove la paura è proprio l’ultimo pensiero che viene di fronte a queste cose di duemila e più anni fa spesso di una bellezza incomparabile.Il titolo, che sulla cancellata d’ingresso viene riportato anche in inglese, è una implicita allusione alle mostruosità cinematografiche e fumettistiche che piacciono alle generazioni più giovani, forse perché allevate a effetti speciali che suscitano continuamente brividi calcando la mano sulla bruttezza e sulla violenza del mostro, dall’horror al fantasy cruento e sanguinario (per non dire, poi, di certi videogame che diffondono un culto della morte pressoché fascista) . Questo nostro tempo cerca nei mostri immaginati da menti sempre più disinibite, quegli specchi che mettano a tacere l’orrore che ci assale vivendo in una realtà che supera di gran lunga, quanto a violenza e bruttezza, le proiezioni che possono venire dall’immaginazione.La cosa stupefacente – ma non tanto, a pensarci bene – è che di fronte a questi frammenti che provengono da vari musei archeologici italiani, ma anche da prestigiose istituzioni straniere, e spaziano dal mondo greco a quello asiatico, da quello etrusco a quello egizio, con un percorso comparativo e quasi didattico che distingue le creature mitiche secondo l’iconografia e i supporti materiali (sculture, vasi, affreschi, armi, metalli...), viene da porsi la medesima questione sollevata in catalogo dalla direttrice del Museo, Rita Paris: perché paura e orrore sono governati, in queste opere, da una suprema eleganza e nobiltà?Ma è proprio questo apparente conflitto fra forma e significato il dispositivo che collega quelle opere d’arte al mito: la descrizione del mostro di turno, che talvolta può giocare sul polimorfismo e sulla polisemia, è tipica di un sapere che non ha nulla di irrazionalistico: furono filosofi come Cassirer e, più vicino a noi, Blumenberg, ovvero studiosi delle immagini come Warburg, a intuire che la condanna del mito da parte dell’illuminismo era, a suo modo, irragionevole, e forse frutto di timori per l’avverarsi di nuove e pericolose mitologie sociali e politiche (e non erano timori infondati, come si è visto negli ultimi due secoli); irragionevole, nondimeno, pur in un richiamo alla ragione e alla demitizzazione, in quanto il mito, fin dai tempi più antichi, è stato un modo di parlare di ciò che non è dato conoscere nelle sue origini; il mito occupa lo spazio vuoto che lega gli usi culturali e le inclinazioni umane a qualcosa che rimonta fino alla notte dei tempi. E pertanto è un modo di pensare, più che di idolatrare; è un linguaggio che racconta prima ancora che una credenza: nel catalogo ben lo spiega Maurizio Bettini analizzando, nelle variazioni del mito di Edipo, la prossimità strutturale dei meccanismi simbolici che fanno capo a “incesto” ed “enigma”, che nella Sfinge trovano il testimone che “confonde” i piani.Così il linguaggio che si articola attorno ai mostri, come già quello delle zoologie simboliche, consente, combinandone gli elementi, di parlare dell’uomo. E qui subentra la questione elementare sulla “bellezza” dei mostri: il mostro, come ogni cosa che rimanda oltre, al divino o, se si preferisce, al trascendente, evoca qualcosa di oscuro o di minaccioso, che ci respinge e ci attrae al tempo stesso, scrive Rita Paris. Si colloca, cioè, nel diapason delle categorie studiate da Rudolf Otto a proposito del sacro: il fascinans e il tremendum. Come, in effetti, definire mostri nel senso banale e negativo oggi dominante, le sirene che vediamo in due meravigliose statuette in terracotta provenienti da Myrina (Turchia) del I secolo a.C., o prendersi uno spavento per le boccacce e le linguacce delle gorgoni (anche quelle più aggressive che mostrano i denti, come sul pettorale di cavallo in bronzo e avorio del VI secolo a.C. proveniente dagli scavi di Ruvo in Puglia), tanto più che un’antefissa semiellittica in terracotta del IV secolo a.C. proveniente da Taranto, pur mostrando la criniera anguiforme di Medusa la compone elegantemente in un’acconciatura che la rende più somigliante a una venere che alla divinità terribile.Evidentemente, l’iconografia di questi miti ottempera all’obbligo di essere “bella” e al tempo stesso “significativa” nelle forme. Le due cose si fondono in un ibrido la cui funzione primaria è memento sacro e morale. Il mito, interpellato, replica con una domanda: se la risposta è giusta, accade, come a Edipo, che il mito apparentemente annulli la propria valenza negativa, in realtà la rifonde in un nuovo enigma, come in labirinto dove una porta superata si apre su un’altra stanza e così fino al manifestarsi di un segreto che, però, muta continuamente nelle forme, anzi diventa performativo della propria stessa ingannevole apparenza. Ma la seduzione dell’oggetto mitico, come la maschera nelle culture tribali, copre altre identità, le porta oltre lo spazio fisico e le rende vieppiù potenti. E viceversa: quando la maschera introduce nello spazio terreno elementi sacri. E in questa meravigliosa attrazione, che nei reperti archeologici si camuffa sotto la loro bellezza (che è tale perché, come nell’arte tribale extraeuropea, non possediamo i codici che svelano il condensato simbolico di quegli oggetti), la vera minaccia nascosta: la stessa che la Sfinge rappresenta per Edipo. Ma non è un banale rebus, se non quanto lo può essere la vita stessa per noi.Roma, Palazzo Massimo - Mostri - Fino al 1° giugno
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