Vittorio Taviani in una foto del 2015 (Ansa)
Rifuggire dalla retorica, ovvero «non usare mai angolazioni di ripresa esaltanti ma mostrare sempre la realtà». Era questo il compito che Vittorio Taviani attribuiva al cinema, un'idea “politica” che è diventata la cifra stilistica stessa di tutti i film che il regista, scomparso domenica scorsa all'età di 88 anni, ha realizzato con il fratello Paolo in cinquantacinque anni di carriera. Eppure, nell'intera opera dei fratelli di San Miniato non è mai mancata un'eleganza estetica della luce e delle inquadrature, altra originale connotazione della loro cinematografia.
Il loro ultimo film, in realtà firmato solo da Paolo perché Vittorio era già malato (per i postumi di un colpo di schiena causato da un investimento stradale), è stato Una questione privata (2017) dal romanzo di Beppe Fenoglio.
I Taviani hanno raccontato la storia e le contraddizioni del nostro Paese. «Vogliamo esprimere la religiosità del politico: è il nostro modo, da atei, di cercare Dio» spiegavano. «Con Vittorio era un piacere chiacchierare di qualsiasi argomento dal cinema alla musica – ricorda lo scrittore Gavino Ledda –, era sempre prodigo di consigli e incoraggiamenti. Poco tempo dopo l'uscita di Padre padrone a Roma ebbi un malore: lo chiamai e lui, insieme a Paolo, si precipitò in albergo portandosi dietro il suo medico e mi rimase vicino fino a quando non ripresi le forze. Ecco, in questo dettaglio apparentemente insignificante, ritrovo tutta l'umanità e l'altruismo di Vittorio». Per volontà della famiglia non ci saranno né funerale né camera ardente.