giovedì 13 ottobre 2016
Sant'Ignazio. Poi padre Turoldo e don Gallo: ecco i preti che lui ammirava. E considerava Papa Francesco un «rivoluzionario» (LEGGI L'INTERVISTA). Ritratto «spirituale» dell'artista. La nota dell'Osservatore. Riccardo Maccioni
Dario Fo, un «giullare» in cerca del sacro
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Certo, non era un credente in senso stretto, Dario Fo. Però, religioso sì. Se è già religione la ricerca di Dio, e indagare le tracce di sacro nel cuore dell’uomo, e pensare che non abbia senso alzare gli occhi al cielo se non si è capaci di chinare lo sguardo sui poveri, gli ultimi, gli abbandonati. Magari, secondo una certa visione rigorista, non sarà la carità cristianamente intesa, ma di sicuro è qualcosa di più della filantropia, va ben oltre la solidarietà, per quanto nobile sia. Così gli piacevano i «pastori» con il grembiule e le mani sporche di fatica, ammirava don Andrea Gallo di cui fu amico, e padre Camillo De Piaz, apprezzava la poetica dolente di David Maria Turoldo. Figure, si noterà, che hanno diviso lo stesso mondo cattolico, così come era di rottura lui, "l’ateo di Dio" come gli piaceva definirsi. E non sai quale dei due estremi dell’espressione avesse più significato. Soprattutto, era conquistato da Papa Francesco, «un rivoluzionario» che «sta cambiando il volto della Chiesa». E non solo. Apprezzava il «coraggio formidabile» di chiedere porte aperte ai migranti, la denuncia della corruzione come male che crea dipendenza, vedeva in lui la fisionomia di un altro Francesco, il "poverello" di Assisi cui è dedicata una larga parte della sua produzione letteraria. Perché Bergoglio ai suoi occhi, non solo diceva le cose del santo di Assisi ma usava il suo stesso linguaggio. La medesima chiarezza, profonda e semplice al medesimo tempo, impiegata per riavvicinare la Chiesa del XXI secolo agli umili, per denunciare «i guai che possono derivare da una Chiesa di principi». Per dirla in termini più banali, lo colpiva la capacità di gridare con forza, a rischio di essere impopolare, che l’uomo e non i profitti aziendali vanno messi al primo posto. Una strada, che invece la sinistra, la «sua» sinistra, aveva smarrito. E intendeva la via della difesa del lavoro, della dignità della persona, in una società che la costringe «alla povertà e alla coscienza di essere povera». Per questo Fo, insieme alla riflessione sui temi alti, alla ricerca sulle domande ultime dell’uomo, continuava a raccontare la cronaca semplice, per certi versi banale. Ecco allora il libro Un uomo bruciato vivo, sulla terribile vicenda del romeno Cazacu ucciso dal datore di lavoro nel 2000. «Dovete parlarne voi cattolici perché in questo momento, con questo Papa, siete gli unici a poterlo fare in modo libero», disse una volta. «Ma senza intervistare me, denunciando la realtà del lavoro disagiato che rende schiavi», continuava. Perché «siamo tutti colpevoli per distrazione». Una superficialità, che non fu mai sua. Neanche nella ricerca di Dio. Del Signore giudice, magari noioso conosciuto per obbligo da bambino, come di quello paterno, accogliente di cui è volto papa Francesco. No, qui non si tratta di fare di un giullare «un santino» e non si può dimenticare la frattura, la ferita per certi versi ancora aperta, che per decenni ha separato Dario Fo dal mondo cattolico, almeno da una certa parte di esso. Più banalmente si vuole riconoscere la volontà di ricerca che ha animato il premio Nobel, il suo coraggio di interrogarsi e provare capire un mondo che faticava a sentire suo, fino a confidare l’ammirazione per sant’Ignazio di Loyola e a fare propria la sua definizione di preghiera come «dialogo». Dialogo tra Dio e l’uomo, tra l’Assoluto e l’infinitamente piccolo. Nel desiderio di capire chi siamo, e quale posto occupiamo nell’universo. Una domanda profondamente umana. Una domanda religiosa.L'Osservatore Romano: in Fo tracce di religiosità nello spiccato anticlericalismoTra i numerosi commenti e dichiarazioni seguiti alla morte di Dario Fo, anche l'Osservatore Romano ne ricorda la produzione artistica e il suo impegno politico-sociale "al centro di mille diatribe". "Nel corso della sua vasta, sterminata e appassionata produzione l'ateo Fo ha recuperato tradizioni popolari in cui non mancano tracce di religiosità. Il tutto di pari passo con uno spiccato anticlericalismo, due aspetti non necessariamente in antitesi - sottolinea il giornale della Santa Sede - , anche perché, come scrisse nel 1957 l'arcivescovo Giovanni Battista Montini rivolgendosi ai 'fratelli lontani' nell'ambito dellaMissione di Milano, 'talora il loro anticlericalismo nasconde uno sdegnato rispetto alle cose sacre, che credono in noi avvilite'".
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