Il modello in scala reale dell’idrovolante Macchi-Castoldi M.C.72 - Reuters/Remo Casilli
È complicato visitare la mostra sul Futurismo che oggi apre al pubblico a Roma cercando di concentrarsi soltanto su quanto si vede, sul progetto espositivo, sulle opere e lasciando sugli scalini della Galleria nazionale di arte moderna tutto quanto l’ha preceduta. Arduo lasciare da parte la vicenda politica e mediatica (e ben poco culturale) che ha accompagnato fin dall’inizio “Il tempo del Futurismo” (un tempo brevissimo almeno dal punto di vista espositivo: chiuderà il 28 febbraio, una finestra davvero esigua per un progetto nato e dichiarato ambizioso, in un momento tra l’altro in cui le mostre hanno lunghe teniture – ma, come qualcuno forse ricorderà, lo mostra doveva aprire a ottobre) e che non serve qui riassumere. Basterà osservare che era difficile che non finisse così, viste le premesse che affondano nel dirigismo “Italy first” (Tolkien a parte) dell’ex ministro Sangiuliano, oggi riemerso per ricordarci di essere un entusiasta biografo trumpiano, e in un pressapochismo nella gestione della componente organizzativa, a partire dall’incapacità di costruire un comitato scientifico.
Quella sul Futurismo era stata annunciata subito come mostra programmatica di un corso governativo e di un rilanciato orgoglio nazionale (e così è avvenuto ieri in una conferenza stampa che ha visto presenziare il ministro della Cultura Alessandro Giuli, il presidente della commissione cultura della Camera Federico Mollicone e Massimo Osanna, capo della Direzione generale Musei), ma profumava assai più di bandiera della revanche di una destra intenta a costruire una nuova egemonia presto rivelatasi piuttosto una endogamia culturale. Una mostra forse anche frutto di un malinteso e di ingenuità: il Futurismo non ha certo più bisogno di riabilitazioni, semmai di studio e divulgazione. Ma il peccato originale di questa mostra, in un ultima analisi, sta nell’essere stata di fatto organizzata e gestita direttamente dal ministero della Cultura, come se fosse l’assessorato di un comune qualsiasi.
Una sala della mostra “Il tempo del Futurismo” alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea (Gnam) di Roma - Ansa/Maurizio Brambatti
Dunque, in tutto questo marasma, che mostra ha preparato il curatore Gabriele Simongini? La chiave dichiarata è nella relazione tra arti, scienza e tecnologia che caratterizza “il tempo del Futurismo” e che lo avvicinerebbe al nostro presente sottoposto, scrive Simongini, allo «tsunami tecnologico dell’intelligenza artificiale» che avvera «la profezia della macchinizzazione dell’umano e dell’umanizzazione della macchina preconizzata proprio dai futuristi». La mostra è oggettivamente gigantesca, con 350 tra opere, progetti, disegni, oggetti d’arredo, film e un centinaio fra libri e manifesti, insieme a automobili, motociclette e strumenti scientifici dell’epoca e un modello in scala reale dell’idrovolante Macchi-Castoldi M.C.72, con cui Francesco Agello nel 1934 ottenne il record del mondo di velocità (709 chilometri orari), ancora imbattuto. In questo senso Simongini introduce come figura centrale Guglielmo Marconi, considerato come un futurista – forse un po’ forzatamente: tutti gli scienziati e i tecnologi lo sarebbero stati, ma certamente le sue apparecchiature restituiscono il brivido di un’epoca di pionieri.
L’idea è giusta, ma l’allestimento fatica a restituirla. L’unica sala in cui questo si compie in maniera efficace è la prima, in cui vengono accostati i precedenti divisionisti del Futurismo ma soprattutto viene istituito un rapporto visivo diretto tra Il Sole di Pellizza da Volpedo (1904) e Lampada ad Arco di Giacomo Balla (1911), giunta dal MoMA di New York, dove il lavoro comune sulla luce si sposta simbolicamente e graficamente dal naturale all’artificiale, dal mondo rurale alla città. Accanto, una lampada ad arco francese dei primi del Novecento. Poi la mostra si diluisce e si perde. Un problema essenziale è dato dagli spazi troppo grandi e iper-illuminati della Gnam per opere che soprattutto nella prima parte hanno dimensioni esigue e borghesi (meglio sarebbe stata una sede espositiva più contenuta e articolata come le Scuderie del Quirinale), che schiacciano la mostra in particolare nelle fasi iniziali costretta a riempire le sale in modo un po’ confuso. Ma soprattutto non c’è un guizzo nella scansione omogenea e priva di brio delle pareti, sulle quali un quadro è appeso invariabilmente ogni 60 centimetri, e dove le poche opere maggiori sono disperse tra i molti quadretti. Mentre la pannellistica anodina e burocratica non prova neppure (ma quando lo fa è davvero discutibile) a recuperare l’energia anarchica e strafottente della grafica futurista, questa invece sì ben documentata nelle molte edizioni in mostra. Per quanto riguarda l’accostamento tecnologia e arte, è difficile non notare come nel grande salone, senza dubbio spettacolare, le automobili e le motociclette oscurino e divorino i quadri alle pareti. Tra l’altro quasi nessuno di questi improntato al tema della velocità: tutti i lavori astratti di Balla sul movimento li troviamo in una sala successiva, dedicata all’intonarumori. Coerente invece la sala sull’aeropittura (ma in generale il secondo Futurismo è meglio rappresentato del primo), costruita attorno all’idrovolante.
Una sala della mostra “Il tempo del Futurismo” alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea (Gnam) di Roma - Ansa/Maurizio Brambatti
La mostra in sé è onesta e tutto sommato esaustiva del mondo futurista, con molti nomi di secondo e terzo piano a testimoniare la vastità del fenomeno, ma non appare di portata internazionale come nelle intenzioni. Inoltre, ed è un pregio, evita secche ideologiche. Eppure è difficile sfuggire alla sensazione che anche con lo stesso materiale, abbondante ma non sempre entusiasmante, sarebbe stato possibile suggerire un percorso differente. Sarebbe bastato osare con più libertà, sovvertendo la consequenzialità cronologica e riavvolgendo più volte il tempo su se stesso per proiettarlo, davvero futuristicamente, di nuovo in avanti.