Rafael Moneo passeggia nel sole mattutino di Pavia. Nelle vie e nelle piazze legge l’originale tessuto romano, le interpretazioni stratificate nel tempo, lo affascina la mole immensa del Duomo. Per l’architetto spagnolo, Pritzker Prize nel 1996, la storia è sempre stata un oggetto con cui confrontarsi. «Tutta la tradizione è stata moderna – osserva –. Ma soprattutto non dobbiamo pensare di essere giustificati solo per il piacere di trovarci in coincidenza con quello che crediamo essere l’espressione del presente. È più importante cogliere le matrici profonde». Moneo riceverà oggi pomeriggio a Pavia il Premio internazionale di architettura sacra Frate Sole, fondato da padre Costantino Ruggeri. Il suo nome si aggiunge così a Ando, Siza, Meier, Pawson e Undurraga.Moneo, classe 1937, è stato premiato per la sua Iglesia de Iesu, realizzata tra il 2007 e il 2011 a San Sebastián, ed è anche autore della cattedrale di Los Angeles, costruita tra 1998 e 2002. Ma le prime battute sono sull’architettura italiana. «La città antica – continua – è un problema architettonicamente urgente, che richiede uno scatto. Capisco bene la tutela del patrimonio storico, ci rendiamo sempre più conto del suo valore. Ma ci sono momenti eccezionali che richiedono interventi forti per mantenere più viva e attiva la città tradizionale: con l’esplorazione dei linguaggi contemporanei ma nel rispetto della scala e dell’atmosfera. Mi sembra che su questo l’Italia sia affaticata. Qualche volta il desiderio degli italiani di essere partecipi della vita contemporanea produce architetture discutibili: penso a Milano dove, forse per non mostrarsi fuori dal tempo, si sono fatte architetture banali. È vero che tutto il mondo è posto sotto pressione da parametri formali che provengono dal tempo della tecnica, ma dobbiamo farli nostri in maniera più spregiudicata».
Quale è il problema più grande nel fare architettura sacra oggi? «L’architettura sacra accompagna la trasformazione subita dalla religione in Occidente : entrambe sono passate da un senso di appartenenza collettiva alle mani e alle menti degli individui. Per tornare alla città antica, è evidente come i suoi luoghi sacri siano il prodotto di uno sforzo collettivo di tutta la società. La popolazione capiva il senso di una costruzione che si alzava al di là di un’esperienza religiosa privata. Una dimensione comunitaria messa in dubbio dal Rinascimento e dalla Riforma, quando l’individuo diventa padrone dei suoi sentimenti. Oggi, come architetti che affrontiamo il sacro, abbiamo problemi allora sconosciuti».
Si può dire che nel passato la comunità era la condizione da cui nasceva l’architettura, oggi è la condizione a cui l’architettura mira?«Sì, stando attenti al fatto che se prima c’era una maggiore compattezza non significa che la società fosse così integrata. Non c’erano alternative di pensiero. Il fatto che sia possibile vivere insieme con idee diverse è anche una conquista della modernità».
Come ricerca la comunità nelle sue chiese, una cattedrale e una parrocchiale?«Ho sempre cercato di riandare a quelle esperienze di architettura religiosa che mi avevano più colpito e convinto. Ma in esse la mia condizione di architetto del presente è molto chiara. Malgrado la differenza di scala, entrambe sono architetture consapevoli di cosa esse significano nella città. In tutti e due casi la Chiesa è una voce tra le molte di una società plura-listica, ma è forte in quel gruppo che vuol sentirsi parte di una collettività. Nel progetto di Los Angeles, metropoli di tante culture, sono partito dal fatto che una cattedrale è soggetta all’appropriazione da parte della comunità cattolica che vi riconosce il proprio spazio. A San Sebastián la parrocchia non doveva essere un’isola. Malgrado il cattolicesimo in Spagna sia in sofferenza, ha una presenza nella vita quotidiana ancora così grande che la chiesa diventa una cornice della vita. In entrambe ho dato particolare importanza anche ai luoghi intermedi, che sono di incontro quanto di filtro. A Los Angeles il grande cortile riprende il patio delle missioni californiane; a San Sebastián ho lavorato sul tema del nartece».
Nel soffitto della Iglesia de Iesu la croce, dalla forma irregolare, sembra sospesa nella luce. Che ruolo ha il simbolo nella sua architettura sacra?«Nella Iglesia de Iesu la croce non è leggibile in modo così diretto come nel Rinascimento, eppure è presente e determinante. Nella cattedrale di Los Angeles la croce acquista un ruolo iconografico più chiaro associata alla luce, ma è meno evidente in pianta, benché ci sia. Rispetto alle grande tradizione, ho sempre cercato di mantenere l’orientamento, l’iconografia della croce, la luce. Senza però esagerare dal punto di vista metaforico».
Nella chiesa di San Sebastián sono molte le opere d’arte astratta. «È merito del parroco, padre Jesus Maria Zabaleta, che ha voluto offrire il meglio possibile, anche nelle opere d’arte che riteneva più preziose. San Sebastián è una città con una importante tradizione di arte contemporanea, con artisti come Chillida e Jorge Oteiza. È nel loro segno che hanno lavorato artisti come Prudencio Irazabal, José Ramón Anda, Javier Alkain. Il parroco non ha avuto paura di questa modernità, sentiva che la sua comunità si sentiva identificata con questo linguaggio».
Quali caratteristiche deve avere secondo lei una chiesa ben riuscita?«Come architetto penso che una chiesa, proprio per il ruolo che la religione ha nelle vite, non può solo dipendere in termini funzionali dalla liturgia. È vero che le chiese devono risolvere i problemi assembleari, ma devono anche permettere un senso di intimità dell’individuo nel rapporto con Dio. È per questo che le mie chiese non sono unitarie ma caratterizzate dalla molteplicità, perché ogni fedele possa trovare il luogo migliore per sé».