È la pietra d’angolo della storiografia su Chiesa e mafia. Quando si vuole riassumere in due parole l’intreccio oscuro tra banditi, mafiosi, servizi segreti deviati, massoneria, 007 americani, preti disinvolti, è sufficiente rievocare “Villa Carolina”. E in Sicilia, ma non solo in Sicilia, molti capiscono. Perché quella dimora di campagna è da sempre considerata il buen ritiro dell’allora arcivescovo di Monreale, Ernesto Filippi. «Come faceva a non vedere quello che accadeva a casa sua?», si sono retoricamente domandati generazioni di storici.
Ma è questa la verità? Dalle inchieste sulla trattativa stato-mafia, ai mandanti esterni delle stragi palermitane, c’è sempre qualcuno a ricordare quella casa di campagna, messa a disposizione di un altro don, il cui titolo non aveva niente di ecclesiastico. “Don Turiddu” incontrava presso quel casale uomini politici, emissari dei servizi, disinibite giornaliste straniere a caccia di avventure e interviste col Robin Hood di Sicilia: il bandito Salvatore Giuliano. La leggenda, a cominciare da quella del capobanda col cronografo d’oro massiccio che ruba ai ricchi per dare ai poveri, si era già infranta a Portella della Ginestra, la cui strage del Primo maggio 1947 ancora oggi resta non priva di misteri.
Altri racconti mitologici seguiranno, come quello secondo cui il corpo di Turiddu, non sarebbe quello sepolto a Montelepre, perché l’astuto Giuliano era riuscito a ottenere le giuste coperture per fuggire in America. Ricostruzione poi smentita dall’analisi dei resti riesumati nel 2011. Per chiarire l’intera epopea del bandito non sono bastati 66 anni, ma forse qualcosa di più sulla “villa del vescovo” oggi è possibile dire. Don Francesco Michele Stabile, storico della diocesi di Monreale, ha raccolto elementi inediti, corredati dalla testimonianza di un protagonista silenzioso.
È monsignor Saverio Ferina, oggi novantenne, che a partire dal 1952 era stato parroco a Montelepre. A Stabile, l’anziano Ferina ha raccontato che «Giuliano, tradito dalla mafia, è stato ucciso nella villa Carolina, alla periferia di Monreale, e poi trasportato a Castelvetrano dove fu organizzata la messinscena del conflitto a fuoco». La fonte sarebbe proprio la famiglia Giuliano con cui, precisa don Stabile, «Ferina era in buoni rapporti», anche per aver benedetto la tomba del bandito. Ma appena si parla di Villa Carolina, il monsignore scandisce una verità che ha voluto rendere con una dichiarazione giurata, redatta il 15 luglio scorso, e corroborata da diversi documenti. «Non era di proprietà dell’arcivescovo di Monreale né della diocesi, e quindi l’arcivescovo non poteva sapere, tanto meno permettere questi intrighi e compromessi».
Il presule «aveva sì una villetta rustica – ricostruisce don Stabile – dove passava qualche giorno di vacanza, non alle porte di Monreale però, ma a circa sei o sette chilometri sulla strada di Pioppo in contrada Sant’Anna, presso il bivio di Partinico». E Ferina si dice sicuro di questo anche perché da giovane seminarista andava a trovare in quel villino l’arcivescovo «per fare con lui una passeggiata». Villa Carolina, dunque, apparteneva ad altri e «qualcuno aveva scambiato le due villette». Giuliano era stato ucciso il 5 luglio 1950. Gli uomini del corpo speciale antibanditismo, inviati in Sicilia, avevano intavolato con lui una “trattativa” che avrebbe dovuto assicurargli un salvacondotto per gli Stati Uniti. Ma Turiddu fece la fine del tonno.
Accerchiato da una trama oscura: sarebbe stato tradito e assassinato dal cugino- luogotenente Gaspare Pisciotta, a sua volta ucciso con un caffè avvelenato (e quanti altri ne verranno sorseggiati nella storia d’Italia) nel carcere dell’Ucciardone. Le circostanze della fine di Giuliano venero camuffate dai carabinieri che inscenarono un finto conflitto a fuoco in un cortile di Castelvetrano, città che ha dato i natali a Matteo Messina Denaro, l’ultimo degli imprendibili di Cosa nostra siciliana. L’inganno fu svelato da Tommaso Besozzi, cronista di alta scuola che scrisse un reportage per “l’Europeo”: Di sicuro c’è solo che è morto. La conferma alle parole di monsignor Ferina arriverà «anche dall’atto di acquisto della villa e dal racconto degli attuali proprietari Marchetta e dalla ricerca dell’avvocato Piero Intravaia », assicura don Francesco Stabile.
Per essere precisi, «nel 1955 con atto presso il notaio Leto di Monreale il signor Giacomo Marchetta, colonnello dei Vigili del Fuoco di Palermo, compra la villa Carolina di Monreale dai quattro figli eredi del cavaliere del Lavoro Emanuele Russo, morto il 12 luglio 1946». Questi, mercante e proprietario di una grande sartoria con numerosi dipendenti, risiedeva nel palazzo di famiglia, a Palermo. Quando una delle figlie si ammalò, su consiglio dei medici Russo acquistò “Villa Carolina”. Nonostante l’aria di campagna la ragazza non guarì. Dopo la sua morte «la villa fu pochissimo frequentata dai proprietari e divenne nella seconda metà degli anni ’40 dominio di mafiosi e di banditi», dice Stabile.
Che volendo prevenire polemiche, aggiunge un’annotazione da uomo di studi prima ancora che da prete: «Non intendo con questo apporto di chiarificazione dare una giustificazione della posizione del vescovo di Monreale o della gerarchia ecclesiastica nei confronti della mafia. Si tratta di una ricerca che va fatta senza veli o reticenze per capire silenzi e responsabilità, se emergono».