mercoledì 20 novembre 2013
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In molti hanno esaminato il fenomeno, ma all’osservatore straniero non è tuttora facile capire perché la figura di John Fitzgerald Kennedy catturi tanto a fondo l’immaginario popolare americano, anche a mezzo secolo dalla sua uccisione. Il 22 novembre 1963 – o «quel giorno a Dallas», come è noto negli Usa – ha cominciato ad essere rivissuto negli Stati Uniti da almeno un mese, e nelle ultime settimane sono stati pubblicati quasi 100 libri sulla vita e morte di John, detto Jack. La scorsa settimana il canale della “National Geographic” ha mandato in onda il docudrama Killing Kennedy. Domenica è stato il turno di Letters to Jackie su “The Learning Channel”, seguito da un paio di ricostruzioni storiche sulla “Abc” e da tre dibattiti sulla “Pbs”. Il contenitore diurno della “Ncb”, Today Show, trasmette tutta settimana da Dallas, mentre la “Cbs” ha in programma uno speciale per venerdì, il giorno in cui comparirà su Twitter una cronaca delle ultime ore del 35esimo presidente degli Stati Uniti, come se venisse ucciso di nuovo, esattamente 50 anni dopo. Certo, Jfk è stato il più giovane presidente americano, il primo dell’era televisiva e il più bravo del suo tempo nel riconoscerne il potere. Il suo aspetto, il suo carisma e la sua abilità retorica, oltre alla bella moglie e alla ricchissima famiglia, spiegano il fascino che ha esercitato in vita. Che quella vita sia stata falciata – la parabola troncata prima di compiere il suo corso – ha lasciato un profondo senso di perdita, più per lo spreco del potenziale inespresso che per la privazione di dimostrate capacità. Le immagini dell’aitante 46enne nella limousine che si piega verso la moglie prima di essere trafitto dal colpo letale; della vedova che accompagna il feretro con addosso il tailleur rosa insanguinato; del bambinetto che saluta come un soldatino la bara del padre. Scene viste migliaia di volte. Eppure la televisione, la gioventù, la bellezza e lo choc non bastano a spiegare la presa di Kennedy su generazioni di americani, anche dopo che sono emersi particolari non lusinghieri sulla sua vita. Altri tre presidenti sono stati assassinati. Altri hanno ispirato il Paese con i loro discorsi o hanno avuto un impatto più profondo sulla sua storia. Ma solo uno è diventato l’emblema di un’era scintillante e piena di promesse, simbolo di coraggio e di ambizione, di privilegio e di alti ideali. La risposta di molti storici, fra cui Robert Dallek, John Hellmann, Mark White, è che il mito di Jfk è stato creato a tavolino, frutto di un’operazione che vide impegnato prima di tutto il milionario padre, ma anche lo stesso John. «Venderemo Jack come sapone», disse Joseph, il patriarca della dinastia Kennedy. E così fece. Cominciò col diffondere, grazie ai suoi amici giornalisti, i racconti dell’eroismo del figlio in guerra – reali, ma non unici. La pubblicazione nel 1940 dell’elaborazione della tesi di John ad Harvard (comprata poi in massa da Joseph) contribuì a creare l’immagine di Jfk come uomo di lettere. La promozione di un secondo libro, Profili in coraggio, scritto prevalentemente da altri, fu così ben orchestrata da portare al premio Pulitzer e rafforzò la reputazione di John come politico dedicato al servizio pubblico. La sua elezione alla Camera a 29 anni e al Senato a 35 la consolidarono. Intanto la pubblicità data al suo bell’aspetto e al matrimonio con Jacqueline alimentarono prima l’aura da sex symbol e poi quella di uomo di famiglia. La controversia sulla sua religione cattolica, sorta durante la campagna presidenziale, venne abilmente usata per stabilire credenziali da uomo di fede. L’inaugurazione alla Casa Bianca del ’61 fu la prima ad assomigliare a un’incoronazione, con balli, vestiti principeschi, eventi esclusivi, tutti divorati da fotografi e cameramen abilmente scelti. I Kennedy erano diventati una famiglia reale per gli americani, cui apparve normale la nomina di Robert al ministero alla Giustizia. Gli eventi culturali organizzati da Jackie alla Casa Bianca (altra novità) erano compensati dalla comparsa Marilyn Monroe al 45esimo compleanno del presidente, creando un misto di cultura alta e bassa, di raffinatezza e popolarità. Ma tutto questo non sarebbe bastato senza un tocco finale. E a darlo non fu il padre, bensì la moglie di John – la stessa che era stata tradita e che forse non amava nemmeno il marito. Fu Jackie, una settimana dopo l’orrore di Dallas, a convocare il giornalista Theodore White della rivista “Life”. A lui raccontò che a Jack piaceva re Artù. Non il cavaliere medievale, ma l’Artù che era ricomparso come protagonista di un libro, di un musical e persino dell’animazione Disney: un eroe pacifista e idealista. «Ci saranno altri ottimi presidenti – disse la vedova – ma ci può essere un solo Camelot». Per qualche motivo Jackie aveva deciso che del marito sarebbe stata ricordata la grandezza e non la meschinità. E così fu. Nessuna rivelazione posteriore, né del libertinismo di Jack, né della sua dipendenza da droghe per sopportare il dolore alla schiena, né di possibili legami con la mafia, hanno diminuito l’adorazione degli americani, accrescendo al contrario la sua statura come oggetto di desiderio, martire, uomo dall’ambizione illimitata e dalla sensibilità principesca. E oggi, nonostante due generazioni si siano formate su libri che descrivono un uomo non facile e un presidente non eccezionale, il mito di Camelot resiste.
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